Adolf Hitler era vegetariano, animalista, astemio e capnofobo (cioè non sopportava i fumatori di tabacco), però faceva uso di cocaina, amava la musica di Mozart, Beethoven e Wagner, credeva nell’astrologia e baciava i bambini. Chiunque condivida almeno una di queste preferenze o avversioni del defunto dittatore può, a seconda dei casi, vedersi accusato di nazismo dai propri avversari allo scopo polemico di delegittimarne una specifica posizione mediante l’attacco alla sua reputazione, magari in flagrante contrasto con le sue convinzioni e la sua storia personale. In questo caso si potrebbe anche parlare di argumentum ad hominem. Dialoghetto non tanto immaginario: “Vai al Festival di Bayreuth? Allora sei un nazista, perché anche Hitler lo faceva”. “Ma veramente io sono ebreo come Hermann Levi e Daniel Barenboim, famosi direttori wagneriani. E mio nonno è morto ad Auschwitz”. “Allora hai interiorizzato l’antisemitismo nazista. Vergognati!”. Secondo il filosofo Leo Strauss (tedesco-americano di origini ebraiche) si tratterebbe di una fallacia logica derivata dall’antica reductio ad absurdum, sulla quale si basano per esempio le dimostrazioni dei teoremi di Euclide e le prove ontologiche dell’esistenza di Dio da Sant’Anselmo a Gödel.

Figlia degenere di una nobile madre, la reductio ad Hitlerum (ad Mussolinum, ad Stalinum, ad Berlusconem; ognuno vi sostituisca il nome che più aborre) è arma prediletta dai comizianti televisivi, dai sofisti da bar dello sport e da tutti coloro che, per ignoranza della materia trattata e/o incapacità di ragionamento logico, vogliono comunque apparire vincitori in una controversia (cfr. Schopenhauer, Eristische Dialektik, stratagemmi 32 e 38). Tale procedura è invece considerata squalificante nell’ambito della discussione scientifica e della divulgazione che ambisca ad essere considerata “alta”, “seria” e via aggettivando. Per valutare in sede preliminare la credibilità dei signori B&T e del loro Libro non pare dunque inutile esaminare alcuni passi dei primi due capitoli in cui si tratteggia la loro filosofia della storia in rapporto alla pretesa “demitizzazione” di Mozart.

Il prologo dei nostri autori non ha luogo in cielo, bensì in cineteca.

B&T p. 10: “Nel 1941 Goebbels voleva che si girasse un film su Mozart, per completare l’azione di propaganda nazista”. […] Il regista Karl Hartl (1899-1978) raccolse un distinto gruppo di artisti molto conosciuti al pubblico tedesco: Hans Holt nei panni di Mozart, Winnie Markus di Constanze, Walter Jessen [sic, recte: Jenssen] di Leopold e Curt [sic, recte: Curd] Jürgens in quelli dell’imperatore Giuseppe II. Mancavano Da Ponte perché era un ebreo e i massoni perché Hitler non ce li voleva”.

Interessante, ma puzza d’imparaticcio. A parte i refusi nei nomi degli attori, lo dimostra la n. 19 di p. 11, dove B&T  definiscono la Reichsfilmkammer “una società pubblica di Berlino che controllava tra il 1933 and [sic] 1945 l’industria cinematografica nazista”. Pensavano in inglese? No, hanno incollato di peso una pagina di Wikipedia traducendola malamente all’impronto. Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Reichsfilmkammer. Quale attinenza poi ci sia fra la propaganda di un regime criminale e lo studio scientifico dell’opera di Mozart ci viene spiegato a p. 12: “Le pellicole musicali degli anni ’40 si affidavano alle ricerche storiche della Musikwissenschaft (musicologia) che era nata in Germania. […] Pescando nell’aneddotica sovrabbondante dell’Ottocento, Gobbels… [omissis].”

Riducendo la musicologia all’aneddotica ottocentesca, B&T ne sviliscono d’un colpo lo statuto scientifico e ne riportano la genesi alla patria delle Camicie Brune, peccato originale inespiabile per gli antifascisti a chiacchiere. Noi credevamo che tra i padri fondatori della disciplina figurassero, oltre l’italiano Giovanni Battista Martini (1706-1784), i britannici John Hawkins (1719-1789) e Charles Burney (1726-1814). Invece quelli non contano perché, a detta di B&T (p. 18), fu “Guido Adler (1855-1941), docente austriaco considerato il padre della musicologia moderna” a inventare “di sana pianta” il concetto austro-tedesco di Classicismo viennese fondato sulla falsa Trinità Haydn-Mozart-Beethoven, in ciò prendendo spunto da una retorica tirata di Karl Renner (1870-1950), un non-musicologo.

Si noti però che Renner era un politico moravo di tendenza socialdemocratica moderata, dapprima fautore poi oppositore dell’Anschluss; Adler un ebreo pure moravo, discriminato dopo l’arrivo a Vienna della Wehrmacht. Avendogli rubato la sua ricchissima biblioteca, i magnanimi vincitori gli concessero la sopravvivenza fisica ma ne anticiparono virtualmente la morte alla falsa data del 14 dicembre 1933, come si legge nell’infame Lexikon der Juden in der Musik curato da Herbert Gerigk. Né Renner né Adler potevano dunque nutrire particolari simpatie verso Hitler e seguaci; farne i padri di un mito culturale “austro-tedesco” [sic], nonché ispiratori della filmografia goebbelsiana, pare addirittura grottesco.

Ma B&T non demordono (p. 19): “dopo la seconda guerra mondiale i musicologi, seguaci di Adler, continuarono a credere in questa tradizione filo-nazista”. Dunque nazisti ante-marcia non solo Guido Adler, che nella prima edizione del suo Handbuch der Musikgeschichte (Francoforte 1924) aveva scritto un capitolo intitolato “Die Wiener klassische Schule”, ma anche il suo allievo Wilhelm Fischer, altro ebreo perseguitato (Zur Entwicklungsgeschichte des Wiener klassischen Stils, in “Studien zur Musikwissenschaft”, 1915) e l’inglese Frederick Corder (The Classical Tradition, in “The Musical Quarterly”, 1917).

Forse il nazionalsocialismo e la Wiener Klassik saranno frutto di una congiura tra la perfida Albione e gli altrettanto perfidi giudei, già attivata nel corso di quella prima guerra mondiale che fu voluta, come sa ogni buon revisionista, nell’esclusivo interesse della multinazionale bancaria Rotschild, nonché – ça va sans dire – della Massoneria? No, vedremo nella prossima puntata che le sue radici affondano ancor più lontano: nel Sacro Romano Impero di Nazione Germanica.