Affermano Bianchini e Trombetta (pp. 20-21): “Da un punto di vista storico ci fu l’interesse primario degli imperatori, dopo la pace di Aquisgrana, a controllare la produzione musicale, cioè i ‘mass media’ dell’epoca. Non si trattò di scuola di stile, ma di semplice opportunismo politico […]. Oggi, se tornassero in vita, baderebbero a controllare il cinema e la televisione.”
Tipico esempio di fantasmagoria controfattuale e ucronica. A prescindere da un mare di monografie recenti, per evitare la figuraccia bastava che i due Sondriesi consultassero un’onesta seppur datata compilazione di fonti d’archivio che è assente dalla loro pletorica bibliografia: Ludwig von Kochel, Die kaiserliche Hof-Musikkapelle in Wien von 1543 bis 1867: Nach urkundlichen Forschungen, Wien, Beck, 1869. “Nach urkundliche Forschungen”: ricerche documentarie, non bufale ideologiche. Vi avrebbero appreso che nelle loro scelte di politica musicale gli Asburgo seguirono sempre le correnti di gusto a suo tempo dominanti in Europa. Ovvio: “già che spendo i miei danari / io mi voglio divertir” (Mozart, op. non cit.). La loro cappella di corte, divenuta centro di eccellenza anche per i livelli salariali piuttosto generosi, fu prevalentemente borgognona e tedesco-fiamminga con Massimiliano I e Ferdinando I. Con l’ascesa al trono di Ferdinando II nel 1619 ebbe inizio la lunga e quasi incontrastata egemonia italiana, destinata a durare fino alla morte di Carlo VI nel 1740. Che in quest’epoca non vi fosse “scuola di stile” è contraddetto dall’attivo interessamento di Ferdinando III, Leopoldo I, Giuseppe I e dello stesso Carlo VI, tutti musicisti praticanti. Leopoldo e Carlo erano persino in grado di sovrintendere alle prove sedendo al clavicembalo, effettuavano di persona le audizioni dei cantanti di maggior grido (ad es. Farinelli, che disse di aver cambiato il proprio stile di canto dopo la lezioncina del Padrone Cesàreo), componevano in proprio.
Le lettere del bolognese Luca Antonio Predieri, nonché la radicale svolta stilistica fra i lavori veneziani e romani di Antonio Caldara e la sua produzione al servizio viennese, testimoniano del gusto personale di Carlo VI, fautore del contrappuntismo severo e disposto a compensare di tasca propria la differenza salariale fra il Kapellmeister Johann Joseph Fux e il suo vice (appunto Caldara) in attesa che il posto di primo titolare si rendesse vacante per la morte dell’austriaco e il veneziano ne potesse raccogliere la successione ufficiale.
Nel loro patetico tentativo di tirare a indovinare, B&T ignorano che proprio la guerra di successione austriaca, apertasi nel 1740 con la morte di Carlo VI e conclusa col Trattato di Aquisgrana (1748), segnò un brusco allentamento del “primario interesse degli imperatori […] a controllare la produzione musicale”. La spending review operata da Maria Teresa e dal suo consorte Francesco Stefano ridusse da 130 a circa un ventina i membri stabili della cappella di corte, le retribuzioni subirono un taglio, al posto di primo Kapellmeister si avvicendarono un italiano verace come il citato Predieri, l’oriundo austro-napoletano Giuseppe Bonno, il boemo Gassmann, e infine – dal 1788 al 1824 – il troppo calunniato Salieri, ultimo italiano a ricoprire quel posto ormai non più tanto redditizio come un tempo. In parallelo all’affievolito ruolo della corte imperiale nell’indirizzo della vita musicale viennese, decollarono i concerti nei palazzi dell’alta nobiltà, le associazioni filarmoniche private, i teatri impresariali, l’industria editoriale impegnata a rifornire il dilettantismo alto e basso. Meno Corte e più Mercato, per condensare il processo in una formuletta comprensibile ai signori B&T.
Perché abbiamo insistito tanto stucchevolmente sull’origine nazionale di alcuni protagonisti della musica viennese nel corso di tre-quattro secoli? Perché l’anelito a far pulizia etnica è il grimaldello favorito dai Sondriesi per “decostruire” l’esistenza di un qualsivoglia ruolo di Vienna, in quanto capitale di un vasto impero multinazionale e metropoli dotata di risorse economiche considerevoli benché fluttuanti, nell’aggregare presenze musicali di alto livello da ogni parte del continente. Se si dà retta ai due maestri di confusione delle carte, di un fenomeno tanto ovvio la musicologia ufficiale (pangermanica, protonazista, filonazista e postnazista per peccato di origine) non si sarebbe accorta. Si leggano le loro liste leporelliane alle pp. 28, 29, 31; ponendo poi mente che nel loro entusiasmo nemmeno si accorgono di presentare due volte lo stesso compositore boemo: “Dussek” nella forma germanizzata e Václav Jan Dusík in quella ceca. A meno che nel primo caso non volessero parlare di František Xaver Dušek, grande amico di Mozart e non legato di parentela al precedente. La confusione era già diffusa all’epoca, ma con un buon dizionario musicale sotto mano B&T avrebbero potuto chiarirla a se stessi e ai lettori. Non importa: un boemo è un boemo, e per i Nostri tutti i boemi “non sono considerati dai tedeschi perché boemi; non si prendono in esame neppure i francesi perché francesi; non si valorizza Saint-George perché mulatto, non si dà importanza agli italiani perché italiani”. Ipsi dixerunt, ma è una balla spaziale. Basti guardare in che lingua sono scritte le prime biografie di tanti fra gli autori “valorizzati” da B&T in quanto non austriaci o non tedeschi di nascita.
Veniamo ora al sodo. Ciò che davvero interessa ai Nostri non sono né i boemi né i mulatti; bensì gli italiani. Interessano molto anche a noi, solo che per “valorizzarli” sarebbe utile qualche riferimento meno datato del pur benemerito pioniere Fausto Torrefranca. A p. 25 del Libro si trapianta senza commenti un suo catalogo di musicisti italiani attivi in Austria e in Boemia, “specialmente quelli di scuola veneziana, dalle decine dei più celebri, come Lotti, Caldara, Tartini, Durante, Bononcini, Traetta; alle centinaia di quelli famosi al tempo, che oggi sono ignorati, tra i quali Rutini, Ferradini, Bertoni, Perti”. Disponendo di strumenti meno rudimentali rispetto a quelli in uso nel 1930, era opportuno precisare che Durante (scuola napoletana) non si mosse mai da Napoli salvo che per un ipotetico soggiorno romano, che “Bononcini” va inteso come Giovanni junior (scuola modenese-bolognese, 1670-1747), che “Ferradini” (rectius: Ferrandini) fu attivo a Monaco di Baviera, non in Austria né in Boemia. E che ugualmente Bertoni si recò solo a Londra, che Rutini (fiorentino di formazione napoletana) girò mezza Europa fino a Pietroburgo ma dopo il 1760 gettò l’ancora in Italia. Forse un po’ presto per influenzare davvero la Wiener Klassik? Infine che Perti (scuola bolognese con ascendenze didattiche romane) non si mosse mai dal Bel Paese, pur intrattenendo con Vienna rapporti virtuali per mezzo di lettere, partiture e allievi.
E in fondo cosa conta Vienna nella storia della musica? Meno che niente. Eccovi le “prove” in termini di rigorosa purezza razziale. Citando Hermann Abert – autore peraltro assai indigesto ai Nostri perché serio e documentato eppure non sospettabile di filonazismo essendo defunto in tarda età nel 1927 – ecco la scoperta decisiva (B&T p. 19): “Wolfgang Amadeus Mozart era tanto poco un viennese autentico quanto lo furono Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven, ai quali la storia della musica suole accostarlo nella triade dei classici viennesi”.
Qui si riscopre l’ombrello, signori miei. A Vienna, per secoli calamita di musicisti per le ragioni che B&T non sanno spiegarsi se non nei termini di un abbietto “opportunismo politico” degli Asburgo, quasi tutti i sommi maestri “viennesi” sono immigrati di prima generazione. Austriaci DOC? Solo Schubert è un viennese di sobborgo, gli altri provengono dai quattro angoli dell’area germanofona vasta, ma a rigore non sono neppure austriaci. Ragionando con la geopolitica del tempo: Haydn viene da Rohrau – in quella Cisleithania che ospita tedeschi del Burgenland, ungheresi, boemi e varie minoranze slave – da famiglia di origini croate. Gluck nasce nel Palatinato bavarese; la sua “origine boema” (p. 32) è una mezza bufala. Studiò sì a Praga, ma in latino e in tedesco, solo perché in Boemia si era trasferito fanciullo al seguito del padre guardiacaccia; di ceco non sapeva una parola, tedeschi i genitori, lui stesso patriota tedesco ed anzi autodefinitosi “tartaruga tedesca” in polemica con certi razzistelli bolognesi dell’epoca (1763). Mozart è a duplice titolo un tedesco meridionale essendo nato a Salisburgo, allora parte della cosiddetta Baviera non elettorale dove il padre Leopold si era trasferito da Augusta in Franconia. Beethoven è un tedesco renano, fiammingo per parte di nonno. Brahms è un tedesco nordico venuto dalla protestante Amburgo. Mahler, figlio di un oste ebreo stanziato in Boemia, a Vienna resta un allogeno al quadrato anche dopo essersi fatto battezzare, dettaglio che la soave Alma gli rinfaccerà a giorni alterni. Come confesserà per iscritto a Janáček, non era in grado di capire il libretto di Jenůfa, sicché gliene domandò una traduzione in tedesco.
Ma chi sarebbe poi un “viennese autentico”? Nel 1856 la solerte anagrafe asburgica registra una situazione da vero melting pot: nella capitale dell’impero solo un 44 per cento dei 680mila residenti è tale per nascita. Oltre un quinto è originario di Boemia e Moravia; altrettanti i nuovi venuti dalle pianure dell’Austria inferiore e dall’area alpina (Austria superiore, Salzkammergut, Tirolo, Carinzia, Stiria e Kraina). Il resto spiccioli: slesiani, polacchi, ungheresi, slavi del sud, italiani.
Non paghi delle figuracce già rimediate, B&T rincarano la dose con eroico sprezzo dell’aritmetica (p. 27): “I maestri HMB [Haydn, Mozart, Beethoven, ndr] […] a Vienna non erano vissuti neppure così a lungo, né essi vi avevano lavorato a sufficienza […]. Mano al bignamino: Haydn vi si formò dal 1740 al 1756 circa e ci tornò regolarmente per trent’anni a lavorare nel palazzo d’inverno dei suoi principeschi padroni Eszterházy, iscrivendosi fra l’altro, in compagnia di Mozart padre e figlio, alla loggia massonica viennese Zur wahren Eintracht (1785). Dal 1790 fino alla morte (1809) vi risiedette come compositore indipendente facendone la base per le sue tournées londinesi.
Mozart ci visse e lavorò stabilmente dal 1780 al 1791; su una vita di 35 anni non pare pochissimo. Beethoven fece altrettanto dal 1792 al 1827, cioè dai 22 anni fino alla morte. Ci vergognamo a ripetere queste ovvietà, altri dovrebbe vergognarsi di più per il fatto d’ignorarle e/o di celarle ai suoi lettori. Sullo stesso argomento molto si potrebbe aggiungere, ma crediamo di aver accennato quanto basta per scoprire quale tempra di storiografi si celi dietro le ambizioni revisionistiche della scuola sondriese.
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