Stia in guardia il paziente lettore: in questa terza (e per ora penultima) puntata si parlerà di cose serie tipo filosofia, epistemologia, geopolitica. Chi volesse eroicamente procedere oltre lo faccia a suo rischio e pericolo; a chi invece si accontenta di un’onesta ricreazione consigliamo di saltare alla successiva, che intitoleremo, a Dio piacendo, “L’ora della Capra”.

Rullo di grancassa (Bianchini e Trombetta, p. 29): “I musicologi non devono basarsi su giudizi personali per definire un autore romantico preromantico o classico. Se un autore è vissuto in un periodo storico, il suo linguaggio va collocato in quel contesto”.

Squillo di trombone con annessa tabellina crono-pitagorica (id&id, p. 34-35):  “La periodizzazione deve essere applicata, come alla letteratura, anche alla musica, senza però scomodare il ‘classicismo viennese’, etichetta di parte antistorica. Con tutti i limiti che può avere una schematizzazione, le espressioni letterarie, filosofiche, artistiche della cultura occidentale seguono una scansione temporale comune:

Barocco: fine 1500-tutto 1600.

Arcadia: fine 1600-inizi 1700.

Illuminismo: prima metà 1700.

Rococò: 1730-1760.

Neoclassicismo: seconda metà 1700.

Preromanticismo: seconda metà del 1700.

Sturm und Drang: 1765-1785.

Romanticismo: prima metà 1800.

Realismo: seconda metà 1800.

Naturalismo: fine 1800.

Verismo: fine 1800.

Per Beethoven, contemporaneo di quel pilastro dell’arte romantica tedesca che fu Caspar David Friedrich (1774-1840) si parlerà allo stesso modo di romanticismo e non di classicismo”.

Qui si manifestano i primi scricchiolii. Senza dire che ci piacerebbe tanto conoscere qualche esempio di filosofia rococò o di architettura Sturm und Drang, ci erudiscano i Maestri Venerabili all’Oriente di Fantasyland: quantò durò l’Arcadia? Un decennio, due, tre? Non si trovano forse larghe vene arcadiche (tematiche, stilistiche, linguistiche) nella lirica degli abati Metastasio e Parini? Giusto per limitarci a due dei maggiori italiani… Neoclassicismo e Preromanticismo occupano il medesimo slot temporale, dentro al quale ci balla comodamente anche lo Sturm und Drang. Dunque ad un compositore vissuto nella “seconda metà 1700” che etichetta stilistica “ deve essere applicata”? Brahms fu romantico o realista? Realista come Wagner? Cacciata dalla porta, la discrezione del musicologo torna dalla finestra. Un disastro soprattutto per quei musicisti che l’incomodo di una lunga vita portò a travalicare i limiti dei recinti storici eretti da B&T. I famosi tre periodi di Beethoven? Lo Stravinskij prima fauve, poi neoclassico ed infine neomedioevale e neobarocco? La prima e seconda “prattica” nei madrigali di Monteverdi? Di quest’ultimo non si salva nemmeno una singola collezione a stampa come la Messa e i Vespri del 1610: nella prima parte: polifonia “osservata” sui tenores di un mottetto di Gombert (ca. 1550-1556); nella seconda: una polifonia di “prima prattica” rigorosamente costruita sui cantus firmi gregoriani si alterna in continuazione a mottetti in stile concertante/solistico. Il tutto preceduto da una Toccata strumentale trapiantata dall’Orfeo. Un’opera teatrale profana, aiuto!

In siffatta visione, dove lettere, filosofie e arti volteggiano a passo sincronizzato come un corpo di ballo del Moulin Rouge, si ammira il trionfo di quelle fantasmagorie, tanto dogmatiche quanto inconclusive, che i signori B&T tentano di gabellare come pensiero solido. Loro non sono certo i primi a parlare di “periodizzazione”. La periodizzazione è il cuore del lavoro dello storico serio, che tuttavia ne riconosce senza illusioni il carattere pratico, operazionale e intercambiabile. “Les périodisations servent à rendre les faits pensables” (Krzysztof Pomian, L’Ordre du temps, Paris, Gallimard, 1984, p. 162). Già un padre della Weltgeschichte – tedesco ma forse non nazista perché nato nel 1795 – aveva decostruito nel 1854 il carattere irreale e mistico, se non mistificante, di un concetto di Zeitgeist che nella visione hegeliana tutto muoverebbe in sincronia al pari di un dio-orologiaio: “come se il progressivo sviluppo dei secoli abbracciasse a un medesimo tempo tutti i rami dell’umana scienza e conoscenza” (Leopold von Ranke, Über die Epochen der neueren Geschichte. Historisch-kritische Ausgabe, a cura di Th. Schieder & H. Berding, München-Wien, Oldenbourg, 1971: p. 57).

Gli fa eco un autore più moderno, l’olandese Johan Hendrik van der Pot, parlando di una “Periodenverschiedenheit der Kulturgebiete”. In spiccioli per chi non si diletta di scioglingua: più che a un rettifilo autostradale la storia della cultura parebbe assomigliare a una rete di mulattiere montane. Una legge nota agli economisti, quella dello “sviluppo combinato e diseguale”, è forse meno  applicabile alle arti? Asimmetria fra centri e periferie, fra classi sociali, nelle tecnologie, nei prodotti della cultura materiale (nell’Africa subsahariana si passa dal tam-tam al cellulare saltando la telefonia fissa, e dal catino di coccio direttamente a quello di plastica). In ultimo quella benedetta incognita di personalità e gusti individuali più propensi ad innovare piuttosto che a conservare… Se lo Zeitgeist è ineluttabile come il Fato, perché Mahler ci sembra più “romantico” di Fauré, che pure era nato 15 anni prima? Lo stesso per Debussy e Strauss, e per Rachmaninov/Schönberg, coetanei stretti.

Lo vedete, signori B&T, dove siete tornati a forza di rivoluzionare la storiografia? Alla Fenomenologia dello Spirito del professor Hegel; uno che vedeva nella monarchia assoluta prussiana l’inveramento supremo dello Spirito nella storia. Per voi uno strano compagno di letto. Se aveste voglia d’imparare finalmente il tedesco, quel barbaro dialetto che tanto vi stava sullo stomaco negli anni universitari (B&T p. 66, n. 176), potrei consigliarvi la lettura del citato van der Pot, un istruttivo campionario dei milletrè sistemi di periodizzazione escogitati dalle origini del mestiere di storico ai giorni nostri: Sinndeutung und Periodisierung der Geschichte: Eine systematische Übersicht der Theorien und Auffassungen, Brill, Leiden-Boston-Köln, 1999.

Ma adesso viene il bello: nuovo rullo di tamburo accompagnato da un “concerto di tromboni, di bombarde e di cannoni” con quel che segue (Da Ponte-Mozart, op. non cit.). A conclusione della loro titanica fatica metodologica, così tuonano B&T a p. 36: “Il tempo del Reich è passato da oltre settant’anni, pertanto non è più accettabile parlare di ‘classicismo viennese’”.

Oh bella questa! È un decretone o un decretino? Invece noi, con o senza licenza dei sullodati signori, continueremo a parlarne allegramente. E parlemo anche di classicismo berlinese (Spontini, Zelter, Mendelssohn, ecc.), di classicismo madrileno (Boccherini, Gaetano Brunetti, Padre Soler, ecc.) e magari di classicismo parigino (Gluck, Salieri, ancora Spontini, Cherubini, Gossec, Méhul, ecc.). Sempre per approssimazione, mentre se sragionassimo con le scombinate categorie bio-geo-politiche del Libro, dovremmo negare l’esistenza di centri urbani capaci, proprio come Vienna, di battezzare scuole, stili e pratiche musicali.

Un modesto esempio (sempre nel solco della reductio ad absurdum, a scanso che qualcuno del loro fan-club ci prenda sul serio): il Regno delle Due Sicilie ha cessato di esistere nel 1861, pertanto non è più accettabile parlare di scuola musicale napoletana per il palermitano Alessandro Scarlatti, il tarantino Paisiello, il barese Piccinni e tanti altri; per non dire di abusivi da sempre come il marchigiano Pergolesi, il ligure Anfossi, il fiorentino Rutini, l’amburghese Hasse. Il contrario sarebbe indice di nostalgie neoborboniche in odio all’Unità d’Italia.

Un secondo: la Repubblica di San Marco defunse nel 1797. Dunque, sotto pena di passare da barbari leghisti veneti, dalla scuola veneziana andranno radiati: il Monteverdi Claudio da Cremona, il bergamasco Legrenzi, il Bertoni da Salò, il Tartini Giuseppe da Piràn; quindi sloveno di famiglia fiorentina immigrato a Padova. Sissignore, nella ex Jugoslavia lo dicevano proprio “sloveno”; ne ho le prove. Sospettabile perfino Vivaldi, nato sì a Venezia, ma da padre bresciano e madre lucana. Un mezzo teròn; se andò a morire a Vienna doveva essere un precursore del nazismo, dunque ben gli sta.

E per finirla un terzo, stavolta interdisciplinare e ricavato da quella storia dell’arte di cui i due Sondriesi tengono cattedra in un istituto comprensivo della loro cittadina. Mestiere quanto mai onorato e luogo ridente che visitammo con piacere in anni lontani; sia detto senza traccia di sarcasmo. Come Lor Signori sanno, verso il 1925 si cominciò a parlare di “École de Paris” per indicare un’ampia costellazione di artisti astratti nati in maggioranza fuori dai confini dell’Esagono. Per citarne alcuni non fra i meno conosciuti (si ponga mente all’accento sempre tronco): de Chiricò, Modiglianì, Severinì, Picassò, Miró, Brancusì, Chagàll. Arrivati e partiti in anni diversi, a volte si frequentarono e a volte no, dipinsero e scolpirono in stili differenti. Il mito della École de Paris sarà certo una tarda invenzione del generale Charles de Gaulle, che dal 1944 al 1969 volle fortissimamente ricostruire, bomba atomica aiutando, la grrrandeur de la Frrrance così da cancellare l’occupazione nazista di Parigi e la vergogna di Vichy. Diciamo bene, Venerabili Maestri? Deh, illuminateci!