Per gentile concessione della testata «Gli stati generali» pubblichiamo a puntate il pamphlet “‘Ma voi chi siete per dirci questo, Dio?’ «La caduta degli dei»: trionfi dell’Invidia e dell’Inganno. Guida democratica per aspiranti musicologi contro fake-books e fake-news: come non scrivere una biografia critica di argomento musicale e musicologico” di Mirko Schipilliti
Questo non è un tribunale, ma i due libri offrono una pletora di inaccettabili conclusioni e congetture da processare sul piano della ricerca e del metodo, e spesso del buon gusto. La lista di esempi da contestare e confutare a riprova di quanto detto è infatti lunghissima, molti sono stati già discussi ampiamente sul web in fiumi di pagine a tutela della cultura e degli appassionati, e a cui rimandiamo il lettore per completezza insieme al citato articolo di Girardi, a quanto pubblicato online dalla Nuova Accademia della Bufala, e non solo (si vedano anche le approfondite obiezioni del prof. Piergabriele Mancuso a quanto erroneamente sostenuto da Bianchini e Trombetta sui rapporti tra Mozart e la massoneria: P. Mancuso, Mozart, la massoneria e la teoria del complotto, in «Nuovo Hiram», 3, 2017, pp. 34-39):
http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/1901/2005
http://www.rivistamusica.com/2022-2
https://laccademiadellabufalamozartlacadutadeglidei.wordpress.com/
https://mozartlacadutadeglidei.blogspot.it/2018/04/
/wp-content/uploads/2017/11/hiram_n3_2017_web.pdf
Uno sguardo generale sui tomi evidenzia la tendenza persistente a rimescolare e inquinare la storia fra mistificazioni, maldestre e incongrue citazioni, cialtronerie, pure chiacchiere e associazioni di estrapolazioni varie, nel tentativo aulico e messianico di riscriverla senza alcuna metodologia analitica, fra voli pindarici inspiegati e approssimazioni ad ampio raggio (la negazione dell’esistenza di uno “stile classico”, le periodizzazioni storico-musicali, o la preconcetta impossibilità di distinguere i quarti di tono, insieme ad altre mostruosità già ampiamente contestate da altri recensori). Si vuole dimostrare l’indimostrabile, senza riportare correttamente le fonti e i cataloghi, si appiccicano notizie scollegate e aneddoti creando una trama reinventata e forzata, gettando continua confusione. Di fatto, nei due tomi, si ama inventare: una lettura attenta e coscienziosa di questi libri evidenzia una moltitudine di messaggi discussi impropriamente e mai in modo veramente scientifico. Ne illustriamo una parte, con ulteriori critiche, scorrendo fra alcune tipologie ricorrenti. L’ingenuità non può essere supposta né giustificata, abbiamo autori che vantano lauree «con lode» e studi ventennali:
- Si sbandierano con protervia, ripetutamente, inquietanti e megalomani giudizi lapidari, in un penoso, deplorevole e irriverente dileggio di Mozart. Commentando Abert riguardo ad elementi gluckiani in Idomeneo (vedi anche Scena V. 4), i nostri due autori concludono seccamente che «pertanto non si tratta di un capolavoro» (vol. II, p. 185), per poi ribadire che Mozart «mantenne le distanze dai suoi colleghi, anche se spesso ne plagiò la musica, sia di Gluck, che di altri, non certo per un senso di rispetto, di venerazione, o di sincera stima nei loro confronti» (vol. I, p. 161), che «non potrà mai essere considerato un autore classico, se ha cambiato stile decine di volte nel corso della sua carriera» (vol. I, p. 27), gli attribuiscono «mancanza di studio» (vol. I, p. 381), affermano che «Mozart si prestava benissimo alle truffe, perché non ha uno stile ben definito, anzi è piuttosto facile da imitare» (vol. II, p. 403), e sanciscono che «tutta la produzione sacra di Mozart è dubbia» (vol. II, p. 402). «Tutta»! Non solo: «ci tocca ammettere che Johan Simon Mayr ha ragione, quando afferma che ‘il genio in natura non esiste’. E Mozart non fa eccezione» (vol. I, p. 171), concludendo il volume I con questa mirabile perla: «Anticipiamo solo che la musica di Mozart, sebbene non sia tutta sua, ha un grande merito, quello d’aver segnato due secoli di storia» (vol. I, p. 421). Ma voi chi siete per dirci questo? Dio? Esiste ancora un’etica professionale? E la fonte di quella impagabile e decontestualizzata citazione di Mayr? Manca. Starà forse nella sua Dissertazione sul genio e sulla composizione? Chissà. Ricordiamo solo il memorandum del 1792 della corte di Vienna che descriveva Mozart come “un artista di tanto genio” (vedi sotto). Mostrateci però almeno una composizione di Mayr confrontabile con la Sinfonia K. 550 o un Concerto per pianoforte di Mozart, per fare due “piccoli” esempi, la accoglieremo a braccia aperte.
- Si inventano fatti e notizie. Ecco come riscrivere la storia. Sul falso mito dell’assassinio di Mozart da parte di Salieri, leggiamo che «lo scrittore e librettista Giuseppe Carpani (1751-1825), inorridito per le malelingue che non stavano a freno, aveva provato a far pubblicare a Vienna una lettera in difesa del Maestro Salieri, ma non c’era riuscito» (vol. I, pp. 37-39). Falso. Gliel’hanno chiesto? Non citano la fonte perché non esiste. La Lettera del sig. G.Carpani in difesa del M° Salieri calunniato dell’avvelenamento del M° Mozzard fu il suo ultimo scritto e apparve sul numero 35 (Anno IX, settembre 1824) della “Biblioteca italiana”, la rivista con cui Carpani, amico fraterno del direttore Giuseppe Acerbi, collaborò regolarmente sin dalla fondazione nel 1816 e che da quella data ospitò tutti i suoi scritti, ivi comprese le prime stesure (in forma di “lettere”) di quelli in seguito ripubblicati in veste autonoma. Milano, dove la lettera fu pubblicata, era parte dell’impero asburgico e un veto a Vienna avrebbe avuto identico effetto nella città lombarda, e si può essere certi che Carpani, ligio e rispettoso funzionario imperiale a riposo nella capitale, non si sarebbe permesso di ignorarlo. Chi mai a Vienna avrebbe voluto porre il veto a un’innocente e quasi scontata difesa di Salieri, già onorato maestro della cappella di corte? Sono piccoli ma grandi dettagli sufficienti a delineare una desolante preparazione storiografica. Ma c’è di più. Nel voler mettere a tutti i costi in bocca ai massoni la questione dell’avvelenamento di Mozart – massoni invisi ai nazisti, e quindi tesi da loro avallata poiché «Salieri era un massone» (vol. I, p. 38) e poiché «il fatto che i massoni lo avessero ammazzato rendeva certa l’ipotesi nazista che costoro fossero dei mascalzoni» (vol. I, p. 39) – si tira in ballo Carpani – si badi bene italiano – che viene ipercitato (almeno sei volte, vol. I, pp. 39-41) come sorta di testimonial a difesa di Salieri. In realtà, il duo ignora completamente che anche fra gli italiani vi era invece una spaccatura sulle tesi pro e contro il nostro compositore, fermo restando che l’avvelenamento – almeno su questo concordiamo – fu una bufala. Ce ne parla Piero Buscaroli nella prefazione alla seconda edizione di La morte di Mozart (che sfigura in bibliografia dove compare solo la prima edizione), appunto riportando «una spaccatura finora ignota nel campo italiano di fronte alla disgrazia di Salieri», evidenziata dall’Ode a Lodovico van Beethoven del 1824 del librettista e letterato cremonese Calisto Bassi, distribuita la sera del 23 maggio nella Gran Sala del Ridotto della Hofburg di Vienna in occasione della replica della Nona Sinfonia di Beethoven. L’ode di venti strofe ne conteneva quattro dedicate al veleno che Salieri avrebbe propinato a Mozart, e viene citata nell’epistolario beethoveniano edito da Henle (Beethoven-Briefwechsel, Beethoven-Haus, Bonn, Sieghard Brandenburg, G. Henle Verlag, Band 5, p. 330) riferendosi anche all’articolo di Gustav Gugitz Zu Mozarts Tod pubblicato nel 1920 nel terzo numero delle «Mozarteum Mitteflungen» (P. Buscaroli, La morte di Mozart, Rizzoli BUR, Milano, 2006). Questa onesta “spaccatura” fu subito evidente fra i commentatori austrotedeschi, ed è falsa infatti la tesi sostenuta dal nostro duo che tedeschi e viennesi inclusi avrebbero sparso la calunnia dell’avvelenamento per nascondere la “vera causa”, cioè il complotto massonico per far fuori Mozart. In difesa di Salieri scrisse infatti da Parigi nel 1824 – prima della sua morte – Sigismund von Neukomm, compositore e pupillo di Haydn, corrispondenza pubblicata sulla «Berliner allgemeine musikalische Zeitung» che recepiva una lettera del Dr. Guldener von Lobes, sovrintendente medico della bassa Austria, testimone oculare del cadavere di Mozart. Lo seguì a ruota nel 1825 Johann Friedrich Rochlitz, direttore della «Allgemeine musikalische Zeitung», nel suo necrologio di Salieri. La stessa rivista accolse, sempre nel 1825, il commento di Anselm Hüttenbrenner – compositore e allievo di Salieri – che ribadì che Salieri «parlò sempre di Mozart con eccezionale rispetto». Il duo ignora totalmente l’esistenza di tutti questi documenti, né si è preoccupato di riguardarsi almeno la seconda edizione del testo di Buscaroli, esempio memorabile di strumentalizzazioni e di ricerca superficiale e manipolata ovviamente a danno dell’ignaro lettore.
- Notevoli sono gli errori riguardo gli studi musicologici sugli italiani nella Germania nazista. I nazisti hanno creato il mito di Mozart e offuscato gli italiani a lui contemporanei? Guarda caso, quando bisogna – purtroppo per forza – citare Henseler come autore dei primi studi su Luchesi, gli autori lo riportano solo due volte e pure un po’ in disparte, limitandosi a nominare il suo studio sull’italiano come «coraggioso saggio degli anni Trenta» (vol. I, p. 31, n. 76), citandolo di sfuggita in nota (vol. II, p. 410, n. 1373), ma senza elencarlo nella bibliografia, saggio che a questo punto andrebbe a sfavore della loro causa perdente (Andrea Luchesi, der letzte Bonner Hofkapellmeister zur Zeit der jungen Beethoven, “Andrea Luchesi, l’ultimo Kapellmeister di Bonn al tempo del giovane Beethoven”, in «Bonner Geschichtsblätter», 1, 1937). Negli anni ’30, in pieno nazismo, Henseler studiava e pubblicava proprio su Luchesi. Persino Taboga dovette ammetterlo. Ai più grandi criminali catalogatori e controllori di ogni aspetto della vita dei cittadini poteva sfuggire Henseler? Si rincara la dose persino con Gluck: «era stato per quattro anni allievo di Sammartini, anche se di lui la critica tedesca “non si vuole occupare perché non le fa comodo”» (vol. I, p. 24). A chi si riferisce il virgolettato? A Gluck o Sammartini? Non se ne occuperebbe perché allievo di Sammartini? Frase sconclusionata, anche nei contenuti, ma verosimilmente riferita a Sammartini, visto che si scrive sugli italiani nel passo in questione. Anche in questo caso l’ignoranza è la regola, perchè – come per Henseler – nel 1929 Ernest Bücken dedicava in Die Musik des Rokokos und der Klassik ben cinque pagine a Sammartini dove, in un iperbolico giudizio ispirato dalla metafisica nazional-popolare di Torrefranca, lo avvicinava addirittura al “rivoluzionario” Wagner; aggiungiamo inoltre il “Giovanni Battista Sammartini” di Robert Sondheimer pubblicato in Zeitschrift für Musikwissenschaft (1920-21). Ne parla anche il celebre musicologo monacense di origine ebraica Alfred Einstein, nel suo saggio su Gluck del 1936, che pare sconosciuto a Bianchini & Trombetta, non comparendo nella bibliografia, studioso considerato dai due dalla «miope visione germano-centrica» (vol. I, p. 17), che invece definisce Sammartini «compositore moderno» (A. Einstein, Gluck, Bocca, Milano, 1946, ristampato da I Dioscuri, Genova, 1990, p. 25), e che per la coppia di scrittori è persino «fratello del famoso fisico Albert Einstein» (vol. I, p. 10). Imbarazzante, era un lontano parente. Ma che razza di ricerca musicologica sarebbe questa?
- È risaputo che la mano di Leopold Mozart aiutò probabilmente il figliolo nei primissimi anni, completando alcune delle composizioni più giovanili, una questione nota da sempre alla musicologia e nemmeno così problematica come vorrebbero farci credere. Più semplicemente: quale padre non aiuterebbe il figlio? Diverso e vile è gettare fango su questi comportamenti, sminuendo Wolfgang in modo grossolano e additando Leopold in modo approssimativo e brutale, generalizzando senza riferirsi chiaramente a che cosa, a quali battute, di quali partiture: «lavorava silente per il bambino prodigio, del quale era il principale forse unico agente» (vol. I, p. 417), «nel caso del piccolo Wolfgang il bambino prodigio era il padre. Almeno per l’aspetto compositivo e considerata l’età, non si trattò né di virtuosismo, né di genio precoce» (vol. I, p. 194). Ma voi cosa facevate a cinque anni? A sorpresa vengono infilate fra le righe boutade come questa: «Le prime due pagine del manoscritto della sinfonia K. 184, sono state scritte da Leopold dieci anni prima, nel 1773 […]. Il resto del primo movimento […] è di mano del copista Friedrich Hofstätter» (vol. II, p. 393). Conclusione ineluttabile priva di argomentazioni musicologiche. Siamo nel 1773, ma anche «dieci anni prima». A che anno si riferirebbero esattamente? Si tratta in realtà di una questione arcinota (il commento critico nella Neue Mozart-Ausgabe a riguardo risale al 1963), non attinente a problemi di attribuzione ma solo di grafia della copia pervenutaci: le prime 14 battute riportano la grafia di Leopold, le battute 15-135 quella del copista. Anche qui si tenta di dimostrare l’inautenticità di una partitura mozartiana senza alcun esempio né riferimento bibliografico. Sarebbe invece più interessante notare che l’incipit del primo movimento viene ricalcato nella sinfonia concertante per violino e viola K. 364, del 1779, nella stessa tonalità di mi bemolle. E non si tratta di eventi casuali. Anche questa fu copiata da Leopold? Il musicologo dovrebbe farsi chiare domande per cercare risposte plausibili invece di sputare abominevoli sentenze.
- Si strumentalizzano considerazioni di personaggi illustri, anche a noi contemporanei come Riccardo Muti, decontestualizzandole. E Muti lo sa che compare in questo libro? «Il Maestro Muti» (vol. II, p. 268). Si dovrebbe scrivere invece “Il Maestro Riccardo Muti”, intanto. E poi: «Il Maestro Muti ha segnalato analogie di Così fan tutte con Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa», aggiungendo che «ebbe a dire a un giornalista che ‘Mozart non è piovuto dal cielo’». Non è esatto. La fonte è l’articolo sul sito www.famedisud.it (viene riportato solo il sito genericamente, non certo specializzato in materia, mentre l’indirizzo web corretto è il seguente: www.famedisud.it/riccardo-muti-spiega-limportanza-dei-grandi-compositori-della-scuola-napoletana-del-700/) dal titolo “L’impegno di Riccardo Muti per la riscoperta dei grandi compositori della Scuola napoletana del ‘700”, che non è un’intervista a Muti, e non è chiaro da dove si estrapolino alcune sue dichiarazioni (vi leggiamo «così ha dichiarato non molto tempo fa», e a chi?), Muti dichiarerebbe che «un noto personaggio tedesco ha detto una cosa che mi è rimasta impressa e mi conforta molto: “Dopo l’ascolto di quest’opera ho capito che Mozart non è piovuto dal cielo”». La realtà è un po’ diversa. Il maestro ricorderebbe di essere stato colpito da quella frase detta da altri, aggiungendo: «E a Salisburgo sento molto spesso il pubblico dire: Ci pare di sentire Mozart. Solo che questa musica è stata scritta oltre un decennio prima» (vol. II, p. 268). La dichiarazione integrale di Muti è in realtà la seguente (il corsivo è nostro), e con un tono ben diverso: «solo che questa musica è stata scritta oltre un decennio prima che Mozart scrivesse i suoi grandi capolavori con Da Ponte». Ce ne vuole per dedurre e attribuire a una grande maestro la presenza di “analogie” da riflessioni come queste, ma soprattutto Muti esprime chiaramente un giudizio entusiasta anche per la musica di Mozart. In pratica si compiono ben quattro gravissimi errori: si impiegano fonti non autorevoli né verificate, si interpreta a proprio piacimento una considerazione, si attribuisce a Muti tout court un’impressione che egli dichiara di aver sentito da altra persona, si altera una sua dichiarazione in modo surrettizio troncandola del nesso che giocherebbe a sfavore. Buttare nel mucchio e manipolare frasi come queste – che in realtà hanno il solo significato originario di non sminuire la musica degli italiani, anzi di porre l’accento sulle relazioni fra stili e linguaggi, e non di segnalare «analogie» univoche, specie da parte di un interprete fra i massimi ammiratori e frequentatori di Mozart, come egli infatti dimostra – strumentalizzando l’impegno dimostrato nei riguardi della Scuola napoletana per tirare acqua al proprio mulino in pagine contro Mozart – suona come puro abuso di un grande nome a proprio uso e consumo. Semplicemente vergognoso.
- Si creano con artificio deliranti interpretazioni di commenti altrui. Chicca delle chicche è la citazione di Sandro Cappelletto da I quartetti per archi di Mozart. Alla ricerca di un’armonia possibile (Il Saggiatore, Milano, 2016), testo citato fino all’inverosimile come “Cappelletto, 2016” nelle note a piè di pagina a partire dalle pagine 69 e 92 del volume II ma indicandone il titolo solo a pagina 83 e senza riportarlo in nessuna bibliografia dei due volumoni. Prima ancora, da pagina 78, si cita invece un “Cappelletto, 2006”, anch’esso ipercitato e irreperibile nei testi (sarà verosimilmente il suo libro Mozart la notte delle dissonanze, EDT, Torino, 2006). Che confusione! Leggiamo attentamente: «Sandro Cappelletto immagina un baule dal quale Mozart pescava all’occorrenza ‘temi, motivi, frammenti appuntati e messi da parte’. Gli sarebbero tornati utili, compresi i pezzi di altri autori, in caso gli fosse mancata l’ispirazione. Ne fa accenno lo stesso Wolfgang in alcune lettere alla sorella scritte nel 1787». E con un volo pindarico riportano Mozart: «Forse non saprai che Sua maestà l’imperatore mi ha ora preso al suo servizio. Sono sicuro che questa notizia ti sarà certamente gradita. Ti prego, mandami al più presto la cassetta con le mie partiture» (vol. II, pp. 104-105). «Ne fa accenno»? Il baule in senso figurato sarebbe dunque per i nostri autori la cassetta richiesta da Mozart nella lettera (e ulteriormente deformata come probabile fonte di idee altrui). L’immaginazione che diventa realtà. Fantastico.
- Si rielaborano surrettiziamente espressioni altrui alterandone i significati originari fino a distorcerle. Dopo l’abuso delle parole di Pamela Potter, rimpinzate di una frase inventata (vedi Scena III), le citazioni parziali di Levi e l’uso improprio di una presunta dichiarazione di Muti, è Cappelletto ad essere nuovamente e impropriamente citato, attribuendogli giudizi negativi che egli non ha affatto espresso a proposito del quartetto K. 80 di Mozart. A pagina 17 di I quartetti per archi di Mozart. Alla ricerca di un’armonia possibile, Cappelletto lo descrive così (in corsivo i passi ripresi): «La raccolta mestizia di questo basso ripetuto, quasi ostinato, rimane il tratto dominante dell’Adagio, screziato da alcuni interventi di primo e secondo violino, come macchie di colore che ravvivano l’omogeneità del ritmo. L’invenzione tematica non è folgorante, il dialogo tra le parti, il gioco di imitazione, le domande e le risposte sono prudentissimi, come i momenti di protagonismo dei singoli, con l’eccezione di rapidi passaggi nel registro acuto dei violini. Però c’è un clima, un’atmosfera, che, dalle prime battute, cattura l’attenzione, quasi immaga. Manca del tutto lo sviluppo dell’idea, la sua articolazione: il seme resta seme, non diventa pianta. In questa uniformità, che non possiede la potenza dialettica che da lì a pochi anni il classicismo viennese saprà conquistare, l’abilità degli interpreti cercherà di variare, nel peso e nella dinamica del suono, equilibri e accenti, giocando tra piano e forte, tra primo piano e sfondo, con brevi accensioni di una luce più intensa che emerge da un’ombra diffusa». E continua a proposito dell’Allegro: «il cambio di passo è continuo e sempre giocoso, interrotto da brevi spunti di contenuto intreccio polifonico, di stile fugato, come prescrivevano le regole del buon tempo antico e barocco, quasi per ricordarci che gli studi del ragazzo erano solidi. I due temi dell’Allegro sono chiaramente diversificati, ma non approfonditi, e il giovane Mozart, dopo i primi due movimenti del suo primo quartetto, ha dimostrato di possedere gravità riflessiva e vivacità ritmica». Nelle mani dei nostri autori tutto questo diventa: «Il Quartetto fu concepito all’inizio in tre movimenti, Adagio, Allegro e Minuetto ‘piuttosto uniformi’, ‘senza dialettica’, e ‘poco approfonditi’» (vol. II, p. 70), rimandando con nota 177 al sopracitato libro di Cappelletto, al quale viene ingiustamente così attributo un giudizio estetico negativo completamente opposto alle proprie reali valutazioni positive, per di più virgolettando una mera rielaborazione dello stesso. Con un meccanismo simile si reinterpretano e si stravolgono parole e giudizi attribuiti a Carolyn Abbate e Roger Parker, autori di A History of Opera The Last Four Hundred Years (ed. Penguin Books, UK, 2012, traduzione italiana di Davide Fassio, Storia dell’Opera, EDT, Torino, 2014), a proposito della storia dell’avvelenamento di Mozart ripresa da Puškin nel dramma Mozart e Salieri, riportati così da Bianchini & Trombetta: «il perfido italiano, un compositore di successo ma in ultima analisi mediocre, uccide l’austriaco perché invidioso del suo genio; la paranoia nei confronti dei rivali a Sud delle Alpi non avrebbe potuto essere più chiara di così» (vol. I, p. 48). In realtà Abbate e Parker non esprimono affatto giudizi personali ma descrivono semplicemente solo lo sfondo letterario del soggetto. I giudizi personali sono piuttosto quelli di Bianchini & Trombetta per cui «Abbate e Parker traggono le conclusioni da una lettura frettolosa del dramma russo e scritti filonazisti» (vol. I p. 48). Addirittura! E quali? Il tono dei due studiosi stranieri è invece ben diverso, definendo infatti la storia del veleno in modo impietoso come una «scurrile invenzione» (C. Abbate, R. Parker, op. cit., p. 363). È dunque affidabile un libro scritto così? La manipolazione delle idee altrui per propria convenienza è un procedimento truffaldino e infamante, che annulla l’identità spirituale e culturale dell’altro, ancor di più quando lo si vuol mascherare a priori, mettendo le mani avanti come nella Prefazione: «Di ognuna delle quasi 2000 citazioni collezionate», scrivono gli autori – ma anche qui i conti non tornano, perché ci sono 1010 citazioni nel primo tomo e 1506 nel secondo, totale 2516, duemilacinquecentosedici! – «segnaliamo le fonti, per consentirne al lettore l’approfondimento». Puro imbroglio. Così agiva la dittatura nazista. “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”) era scritto all’ingresso di numerosi lager, per poi finire assassinati indegnamente.
- Si mistificano ricerche altrui, approssimando e distorcendo i dati storici, usando citazioni prive di riferimento senza alcun sostegno bibliografico e documentale. Insieme alle tesi invertite di Stafford (cfr. Scena III), che non sostiene affatto l’assassinio di Mozart, contrariamente a quanto gli mettono in bocca Bianchini & Trombetta, anche il citato Henseler, studioso di Luchesi, è vittima di attribuzioni fasulle. A un certo punto, e in modo totalmente scollegato dal contesto (la tecnica è lancio il sasso e nascondo la mano), i due autori affermano che «nel 1937 Theodor Anton Henseler (1902-1964) poteva ancora scrivere che l’italiano Andrea Luchesi era stato maestro di Ludwig van Beethoven a Bonn, faccenda non più tollerabile alla fine della seconda guerra mondiale» (vol. II, p. 410), come – sempre secondo i due – dovremmo ritrovare «nella Prefazione di Theodor Anton Henseler, Andrea Luchesi, der letzte Bonner Hofkapellmeister zur Zeit der jungen Beethoven» (vol. II, p. 410, n. 1373). Nelle 142 pagine del saggio di Henseler, non esiste alcuna prefazione, ma 27 righe iniziali di presentazione e ringraziamenti, e non vi è nulla di quanto riportato, né tanto meno nei capitoli successivi. Henseler non fa alcun accenno alla fantasiosa questione su Luchesi maestro di Beethoven – una montatura di Taboga e seguaci, già ampiamente demolita – parlando piuttosto di “influsso” e di milieu (cap. 14, pp. 345-351), poiché Beethoven fece sì parte, da giovane, della cappella di corte diretta da Luchesi, assimilando verosimilmente sia alcuni aspetti del contrappunto che dello stile italiano, come del resto sostenuto anche da Claudia Valder-Knechtges, l’altra importante biografa di Luchesi (A. Luchesi: ein Italiener im Umkreis des jungen Beethoven, in Bonner Geschichtsblätter, XL, 1990, pp. 29-56, p. 54). Beethoven era stato allievo dell’organista Christian Gottlob Neefe, direttore della musica sacra presso la stessa cappella musicale, ma ce ne passa tra questo e trasformare gli eventuali “influssi” ricevuti a corte in un inesistente insegnamento frontale da parte di Luchesi. Henseler è stato un buon musicologo, che si è occupato di Luchesi, autore marginale, con un saggio biografico pubblicato in una collana di “storia patria” musicale, e fatto riemergere forzatamente nei due volumi in mezzo a macchinazioni antistoriche.
- Si accusa persino la musica di J. S. Bach e Händel, giudicando non autentica la celebre Toccata e fuga in Re minore BWV 565: «A dispetto di sostanziali smentite, le creazioni più celebrate degli autori famosi, prima e dopo Bach, continuano a essere loro attribuite, come la celeberrima Toccata e fuga in re minore… Il lavoro potrebbe essere stato composto da un contemporaneo di Bach» (vol. I, p. 377). «A dispetto di sostanziali smentite». «Sostanziali»? E quali? «Potrebbe»? Si tratta di giudizi di accompagnamento altrettanto gratuiti come le tesi di fondo, in cui si dice e non si dice, in questo caso citando a proprio piacimento le tesi un po’ datate dei noti studiosi Peter Williams e Norman Carrel senza darne però alcun riferimento bibliografico (vecchi testi?), e si tralascia per pigrizia o ignoranza invece l’ultimo e recente importante saggio di Christoph Wolff su J. S. Bach. Wolff – già presidente del Bach-Archiv di Lipsia – spiega molto bene come «la Toccata in re minore, BWV 565, è un esempio illuminante dell’audacia virtuosistica che caratterizza il giovane Bach… Il brano, nonostante sia conservato solo in copie molto più tarde, reca l’impronta di un pezzo giovanile e sfrenato… Tenendo conto del fatto che l’organo di Arnstadt era privo di registri manualiter a sedici piedi, il raddoppio all’ottava costituisce una soluzione ingegnosa per colmare questa mancanza e creare l’effetto sono di un organo pleno, che richiede specificatamente i sedici piedi… le trame figurative rimangono notevolmente a fuoco; possono infatti venir ridotte a un’unica idea dominante, il motivo principale che apre il lavoro e, con la sua inversione, costruisce la base di una serie di variazioni continue» (Wolff, Johann Sebastian Bach, La scienza della musica, Bompiani, Milano, 2003, p. 89). Ci avete mai pensato? Senza alcuna esitazione si fa cadere sotto la gogna persino Händel: «I motivi che spinsero Bach a rielaborare pezzi di vecchie composizioni altrui furono gli stessi che mossero il coetaneo Georg Friedrich Händel a copiare da maestri famosi» (vol. I, p. 379). Bel minestrone. Non c’è speranza per nessuno.
- In poche righe possono concentrarsi catene di errori e difetti che associano imperizia, imprudenza e negligenza. Leggiamo e verifichiamo, anche solo a titolo di ennesimo esempio emblematico, quale conglomerato di inadeguatezze si possa ritrovare a pagina 455 del volume II:
a) Si afferma con crassa superficialità che «HMB (Haydn-Mozart-Beethoven, sic!) non erano i preferiti a Vienna dagli Asburgo, perché s’è visto che Giuseppe II anteponeva la musica italiana a quella di Haydn e Mozart. Suo Maestro di cappella era Antonio Salieri», e che «il genere cosiddetto ‘classico viennese’, non dovette piacere nemmeno lì, nella capitale dell’impero, al viennese per eccellenza Giuseppe II » (vol. I, p. 20). Falso e brutalmente approssimativo come sempre, ma repetita iuvant, evidentemente. Il contesto storico è infatti ben diverso da come viene interpretato malevolmente nei due tomi. Il 7 dicembre 1787 Mozart fu nominato proprio dall’imperatore Giuseppe II compositore da camera, con uno stipendio annuo di 800 fiorini, in sostituzione di Gluck – ebbene sì – morto il 15 novembre di quell’anno. I nostri autori riportano l’incarico di Gluck, ma con indifferenza omettono di ammettere che proprio Mozart ne sarebbe stato il diretto successore appositamente nominato (vol. I, p. 361). Come riportato da Solomon, fra i massimi studiosi, un almanacco dell’epoca riferì che «Herr Wolfgang Mozart è stato assunto al servizio effettivo di Sua Maestà l’Imperatore. […] Tutti gli amanti della musica proveranno senza dubbio la più viva soddisfazione per questo riconoscimento a un musicista che per tanto tempo non è stato adeguatamente giudicato e apprezzato secondo i suoi veri meriti» (M. Solomon, Mozart, Mondadori, Milano, 2006, p. 390). Anche se solo Salieri e Giuseppe Bonno erano ufficialmente autorizzati a impiegare il termine di Kapellmeister, per la prima di Don Giovanni a Vienna il cartellone recitava «La musica è di Herr Mozart, opportunamente nominato Kapellmeister di Sua Maestà Imperiale» (Solomon, op. cit.), titolo sulla locandina che i nostri autori liquidano invece come «usato a scopi propagandistici dagli editori viennesi» (vol I, p. 361), pura congettura non argomentata sulla presunta intenzionalità dei viennesi, quindi assecondando solo propri pregiudizi. Del resto, era stato proprio Giuseppe II a commissionargli l’edizione viennese dell’opera dopo il successo a Praga, e successivamente Così fan tutte. Cosa ancora più importante su cui Bianchini & Trombetta tacciono, come invece riportato da Solomon, è che un successivo memorandum del 1792 rivelerà che «il defunto Hofkompositor Mozart fu preso a servizio della corte espressamente per evitare che un artista di tanto genio fosse costretto a cercarsi da vivere all’estero». Nota bene: «di tanto genio», scrisse la corte. Si cita il libro di Solomon in bibliografia, per poi censurare passaggi significativi come questo. Esempio su come vengono impropriamente discussi i dati storici sotto una cappa di agghiacciante superficialità. Risulta pertanto assai improprio e inopportuno l’appunto inserito en passant sulla «eccellente musica vocale di Salieri, che del resto ai suoi tempi la stessa corte asburgica aveva preferito a quella del salisburghese» (vol. I, p. 49, n. 122), né i Bianchini ci aiutano a comprendere le dinamiche dei ruoli all’interno della corte viennese, o per confusione loro o per confondere il lettore, o entrambe le cose. Infatti, prima di Gluck – già nominato Konzertmeister nel 1754 e Kapellmeister nel 1756 – era stato l’austriaco Florian Leopold Gassmann, maestro di Salieri, a ricoprire i ruoli di compositore di balletto e da camera dal 1763 circa, succedendo nel 1772 a Georg von Reutter nell’incarico di Hofkapellmeister, a cui successero Bonno dal 1744 al 1788, seguito da Salieri. Va ricordato che il termine “maestro di cappella” non è quindi univoco, e ve n’era più d’uno nelle corti fin dai tempi di Bach, ognuno con precisi compiti. Per questo, alla morte di Giuseppe II nel 1790, Mozart presentò al successore Leopoldo II la domanda come secondo Kapellmeister – non accolta – poiché Salieri non si dedicava alla musica sacra, viste le restrizioni su questo genere precedentemente imposte da Giuseppe II. Scrivono invece Bianchini & Trombetta: «perché Giuseppe II non offrì l’incarico di Maestro di cappella a Mozart invece che a Salieri? Il motivo lo si deduce da quel che disse Carpani a proposito di Haydn» (vol. II, p. 264). Ovvero lo deducono solo Bianchini e Trombetta in nuovi voli pindarici. Ma questa si chiama analisi storica?
b) Un esempio di indottrinamento per il lettore meno esperto, con vere e proprie sparate approssimative: «HMB non avevano neppure creato una scuola, né sapevano di essere uno l’erede dell’altro, né tanto meno di essere autori classici…Sono tutte forzature fatte a posteriori per scopi nazionalistici e di mercato», frase direttamente collegata alla balorda teoria per cui «”scuola classica di Vienna” si riferì da principio precisamente ad Haydn e Mozart, e fu adottata, da allora in poi, in particolare dai nazisti, che vi aggiunsero Ludwig van Beethoven, specificando Franz Schubert tra gli Evangelisti» (vol. I, p. 19). Falso (da dove poi salti improvvisamente fuori il termine di “evangelista” ce lo dovrebbero spiegare i nostri autori). Quello che la cecità dei due volumoni non vuole ricordare nuovamente è il famoso auspicio del conte Waldstein, che metteva già in continuità i nomi di Mozart, Haydn e Beethoven, così come quanto sostenuto da E. T. A. Hoffmann, eppure è sufficiente sbirciare anche nella saggistica del primo ‘900 per accorgersi che non c’è nulla di nazionalsocialista nell’associare i grandi maestri della tradizione tedesca. Nel volume del 1928 di Edoardo Roggeri dedicato a Schubert, quindi testo italiano pubblicato prima dell’avvento del regime nazista, leggiamo che «la sua opera musicale è qualcosa di più profondo e geniale di una pura e semplice trasformazione delle alte tradizioni tedesche, che del resto gli accademici, sacerdoti intransigenti della trinità Bach, Haydn, Mozart vedevano già in pericolo per lo scisma beethoveniano» e che «merita un seggio in quell’Olimpo di Viennesi: Haydn, Mozart, Beethoven che paiono essersi passata la fiaccola del genio musicale» (E. Roggeri, Schubert La vita – Le opere, F.lli Bocca Editore, Milano, 1928, pp. 17, 210). Basta questo compendio di iperboli italianissime per sfatare le mistificazioni dei due tomi. L’ingenuo concetto astratto di trinità era infatti vivo fin dall’inizio del ‘900, come testimonia anche lo scrittore divulgativo berlinese Paul Marsop, scomparso nel 1925, nel suo “Studienblätter eines Musikers” (Berlin, Schuster & Loeffler, 1903). Quale sarebbe dunque il senso dei dogmi di Bianchini & Trombetta? Evidenziano congetture puramente anti-musicologiche. E non esisterebbe alcuna contiguità di stile fra questi compositori? O meglio, chi avrebbe mai parlato di «scuola»? È piuttosto assurdo che la storia debba scorrere secondo quanto ritengono i nostri “scopritori”. Le forzature sono evidentemente quelle che leggiamo nei due volumi.
c) Il termine HMB è proprio brutto e inadeguato, ma anche ambiguo: si scrive che «non avevano neppure creato una scuola» e poi si accorpano così i tre compositori, proprio come se facessero effettivamente scuola. Atteggiamento incongruo. Oltre al fatto che l’HMB è l’idrossimetilbutirrato, un metabolita degli aminoacidi.
d) Anticipano relazioni subliminali di promozione: «Di questo ampio campo si interessano oggi musicologi attivi oltreoceano, come Marcello Piras». Guardate che bella recensione ha fatto loro proprio Piras in seguito, reperibile nel sito creato ad hoc a scopo propagandistico. Ci risulta però che dal 2006 insegni in Italia (http://www.mozartlacadutadeglidei.it/author/748854aruba-it/).
11. La bibliografia (vedi anche Appendice 1): fluviale, peccato che manchi del fondamentale testo di Kunze sul teatro di Mozart. Se chi scrive quasi 1000 pagine su Mozart non lo conosce è un problema veramente molto grave. E non dimentichiamo l’assenza del Gluck di Einstein, del Salieri di Von Mosel, del Bach di Wolff, dei supposti detrattori Williams e Carrell della Toccata e fuga di Bach, addirittura del Luchesi di Henseler (vedi sotto), dei Mozart di Cappelletto – manipolato in modo surrettizio – e l’impiego oculatamente filtrato di testi ancorché citati, come quelli di Abert, Solomon e Napolitano. Precisiamo soltanto che una delle cose che i nostri bravi maestri e professori si sono sempre premurati di insegnarci è la stesura di una saggia e oculata bibliografia per ogni articolo scientifico, libro o tesi, con annesso apparato di note, opportunamente vagliata e analizzata. L’utilissimo manuale di Carlo Fiore cita saggiamente la massima di Beadiquez che dovrebbe mettere bene in guardia Bianchini & Trombetta raccomandando che «redigere una bibliografia è una prassi di cui si parla poco, tranne quando uno studente viene ‘condannato’ a farne una per la sua tesi – compito del quale si alleggerirebbe volentieri demandandolo, sia nei contenuti che nella forma, al bibliotecario» (M. Beadiquez, Guide de bibliographie générale. Meéthodologie et pratique, K. G. Saur, München-London-New York-Paris, 1989, in Carlo Fiore, Preparare e scrivere la tesi in Musica, R.C.S. Libri, Milano, 2000, p. 121).
In questa recensione sono riportati diversi appunti sulle carenze bibliografiche di vario ordine e grado dei due tomi, a cui si aggiunge l’assenza sospetta di un indice delle composizioni di Mozart citate, che oggigiorno è irrinunciabile per una valutazione di quanto viene sostenuto in un testo che si suppone “critico”.
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