Lettera aperta di Carlo Vitali (il Gazzettante) all’Accademico Feraspe
Come ben sai, o diletto Feraspe, secondo Bianchini & Trombetta tutta la musicologia austro-tedesca – dal 1830 a oggi protonazista, filonazista, criptonazista e postnazista – avrebbe sempre fatto carte false per negare il contributo italiano alla musica germanica di autore “ariano”. Ecco un fulgido esempio del loro argomentare “scientifico”:
La musicologia ricevette grande impulso nel primo Novecento interessandosi soprattutto della riscoperta dei musicisti nazionali, e dai Paesi germanici, dove era molto praticata, si diffuse anche negli altri Stati. Gli storici proposero soluzioni al problema della nascita dello stile strumentale nel Settecento: una è quella “pangermanistica” dei tedeschi guidati da Riemann […] (B&T, I/78).
E ancora, in una delle tante cicliche rifritture che infestano i loro tomi:
Viziata da devastanti premesse, a fissare le basi della nuova scienza della musica pensò il musicologo Hugo Riemann (1849-1919) […]. Torrefranca ne denunciò gli errori nelle Origini italiane del Romanticismo musicale. Il tedesco, esperto di Haydn, Mozart e Beethoven, professore all’Università di Lipsia dal 1895, era portavoce del movimento nazionalista […] (B&T, II/413).
Quest’ultima affermazione non ha il minimo fondamento nella biografia di Riemann, bibliografo, teorico, didatta e compositore di fenomenale operosità che lavorava 18 ore al giorno e non si occupò mai di politica. Dove ne avrebbe trovato il tempo? Pura fantasia da libellisti che sulla musicologia del primo Novecento e dintorni ne sanno quanto un bufalo di astrononomia. Si continua sulla stessa falsissima riga rivangando i dolori accademici del giovane Luca e futura consorte:
Alla facoltà di Musicologia dell’Università di Paleografia e Filologia musicale di Cremona, presso la quale ci siamo laureati con lode, non era permesso a tutti di occuparsi di Mozart o Beethoven, perché erano autori troppo grandi e inavvicinabili. Chi si accingeva a studiarli doveva presentare una bibliografia esclusivamente tedesca, Abert in testa [grassetto nostro, ndr]. L’unico corso di lingue attivato presso il Dipartimento di Musicologia era allora quello di Lingua e Letteratura tedesca. (B&T, I/56, n. 176)
Nota bene, o Feraspe: Hermann Abert, iscritto al circolo liberale Akademische Gesellschaft Stuttgartia e morto nel 1927; successore di Riemann sulla cattedra di Lipsia e storico scrupolosissimo nell’indagare i modelli italiani di Mozart, ma anche lui secondo i Bianchini nazista ad honorem forse perché scriveva in tedesco. Siamo al razzismo non più biologico ma addirittura linguistico: la stessa colpa originaria dei musicologi “giudei” Curt Sachs, Alfred Einstein, Paul Nettl, Otto Gombosi, Willi Apel, Manfred Bukofzer, Otto Erich Deutsch. La musicologia moderna fu fondata, o semmai rifondata a cavallo di metà Novecento, da ebrei austro-tedeschi profughi negli USA, non certo da nazisti in Germania. Non essendo mai riusciti ad imparare decentemente quella barbara favella alemanna (ciò che si riscontra a volontà nei tanti sfondoni di traduzione e citazioni ad minchiam), i Bianchini se la prendono col “pangermanesimo” dei loro passati insegnanti e calzano fieramente sul capo l’elmo di Scipio. Impugnando, a seconda della bisogna e talora nella stessa pagina, quando lo spadone di Alberto da Giussano e quando la mazzarella di San Gennaro: “Sù! nell’irto, increscioso Alemanno…” con quel che segue. L’armata Brancaleone dei loro seguaci, dalle vette delle Alpi bellunesi agli angiporti neoborbonici, si ritrova unita in questo inno alla tronfia ignoranza dei fondamentali:
Di orrori a sfondo razziale è purtroppo ricco il Musik-Lexikon di Riemann che veniva presentato anche a noi ai tempi dell’Università, s’era allora negli anni ’80, come uno dei fari di riferimento essenziali per i musicologi. […] Riemann, fondatore della moderna musicologia, definito da Torrefranca un semiesaltato “non solo tedesco ma pantedesco […]”. (B&T, II/414-5)
Negli anni Ottanta del Novecento i due musicologi in erba potevano già contare sulle edizioni 9-11 del Musik-Lexicon, curate dall’ebreo Alfred Einstein; o magari – se la biblioteca della loro sventurata Alma Mater cremonese fosse stata eccezionalmente aggiornata – sulla n. 12, edita da Schott fra il 1958 e il 1975 sotto la curatela, fra gli altri, del modernista Carl Dahlhaus. Nazista anche Dahlhaus? Non ci facciano ridere. Quanto a Fausto Torrefranca, lui sì autore di riferimento dello sciovinismo panitaliano pre-fascista e fascista, promosso ordinario a Firenze nel 1941 previo giuramento al Re Imperatore e al Duce, sorprende non vederlo fustigato dai grandi democratici di scuola sondriota. Antifascisti a corrente alternata che trovano ributtante solo il nazionalismo degli altri.
Peraltro, salvo che nelle truculente fantasie dei nostri negazionisti, di “orrori a sfondo razziale” non si fiuta traccia nel monumentale lessico di Riemann, strumento di lavoro del quale nessun serio studioso ha mai disconosciuto il valore sin dalla prima edizione (Lipsia 1882). Ecco invece un’antologia dei deferenti omaggi all’eccellenza della musica italiana che costellano alcuni scritti minori del calunniato professore turingio e dei “nazionalisti” suoi seguaci. Si ponga mente alle date:
a) “[…] nella successiva epoca della scuola napoletana fondata da Alessandro Scarlatti si compie un totale capovolgimento dell’ideale operistico fiorentino: i cori e l’elemento drammatico dileguano sempre più di fronte all’incanto melodico del pezzo solistico: l’aria. Sorge l’era del bel canto […]”. Fonte: Bernhard Kothe – Rudolph von Prochaska, Abriss der allgemeinen Musikgeschichte, VIII ediz., Lipsia, Leuckart, 1909: a p. 172.
b) “Lo zelo contro il principio del bel canto induce così ad una sottovalutazione oggi generalizzata delle arie e delle cantate solistiche create dai maestri napoletani e da quelli che scrivevano alla maniera italiana [grassetto nostro, ndr] – senz’altro forme del tutto originali nella rappresentazione artistico-musicale della vita spirituale!” (ibid.; p. 173).
c) “Anche la grandezza semplice di Orlando di Lasso, che s’avvicina molto a Palestrina, è certamente da attribuirsi all’essere egli stato allevato in Italia, benché fosse olandese di nascita”. Fonte: Hugo Riemann, Katechismus der Musikgeschichte (Lipsia 1889), trad. it. di Enrico Bongioanni come Storia universale della musica, Torino, Capra, 1903: p. 250.
d) “Andrea Gabrieli, succeduto nel 1566 a Claudio Merulo nel posto di secondo organista della chiesa di S. Marco, perfezionò la composizione a coro doppio, ma fu specialmente importante come cultore della composizione per organo (“Intonazioni” 1593, “Ricercari” 1595) e lasciò in eredità la sua arte al nipote Giovanni Gabrieli, ad Hans Leo Hassler, ed a Jan Pieters [sic] Sweelinck, fondatore della scuola di organisti nord-tedesca. Per tal modo l’Italia divenne veramente il paese dove i musicisti venivano a perfezionare la loro educazione artistica; e Heinrich Schütz, il decano dei maestri tedeschi della musica sacra protestante, venne in pellegrinaggio a Giovanni Gabrieli, illustre figlio in arte di Andrea” (ibid., p. 251).
e) “Gli operisti napoletani, obbedendo a quel senso della bellezza melodica, che è innato negli Italiani, si diedero a coltivare con speciale amore l’elemento melodico, così sdegnosamente negletto dai fondatori dell’opera; con loro raggiunge perciò veramente il suo apogeo l’epoca del “bel canto” e della virtuosità di canto […] i fondatori dell’opera napoletana, cioè Scarlatti, Leo, Feo, rivestirono per primi di floride carni la magra ossatura creata dai riformatori fiorentini, animandola con un alito di calda vitalità, mentre Monteverde [sic] e Cavalli non avevano raggiunto che limitatamente questo intento”. (ibid., pp. 273-4).
Come vindice dell’italianità in musica Hugo Riemann aveva avuto un predecessore in Robert Eitner, l’autore del non meno monumentale Biographisch-Bibliographisches Quellen-Lexikon (Lipsia 1900-1904). I coniugi Bianchini non lo citano mai una sola volta, e forse non a caso. Infatti anche Eitner, prussiano a 24 carati nato a Breslavia nel 1832 e morto a Berlino-Templin nel 1905, si dedicò tra le infinite sue occupazioni a far rivivere in Germania il canto gregoriano in collaborazione con Michael Hermesdorff, direttore musicale del duomo di Treviri. Nella Germania bismarckiana del Kulturkampf e del “Los von Rom”, movimenti politici tesi a cementare l’alleanza fra trono prussiano e Chiesa di Stato luterana, tale connivenza col “nemico” cattolico bastava a renderlo ferocemente sospetto ai nazionalisti e tutt’altro che adatto a fungere da loro portavoce.
Ecco come l’onesto Riemann ridicolizza le pretese autarchiche di alcuni suoi compatrioti. Anche qui si ponga attenzione alla data: 1888.
“La fisionomia e l’evoluzione della moderna sonata pianistica furono ritenute fin qui dagli storici un privilegio dei Tedeschi. Soprattutto Carl Philipp Emanuel Bach ne sarebbe stato l’inventore. E poiché anche Haydn si unisce alla sua lode e attribuisce principalmente a lui ciò che aveva appreso, ecco che dubitarne o addirittura contraddirvi pare quasi un delitto. Abbiamo un’eccellente introduzione alla storia della sonata pianistica, apparsa nella rivista “Cöcilia” di Dehn (Magonza, Schott & Söhne, vol. 26, 1846/47, p. 129 sgg.). Essa considera la forma della sonata da Kuhnau fino ad Emanuel Bach e Haydn, ma esclude del tutto gli stranieri e questo è un errore [grassetto nostro, ndr]. […] La Sonata non si è svolta dalla suite ma dal concerto ed è propriamente Vivaldi il creatore della forma in tre movimenti: Allegro, Adagio, Allegro, il cui assetto definitivo non si trova in Bach e in Haydn, ma solo in Mozart. Abbiamo due testimoni che ci provano quale potente influsso abbiano a suo tempo esercitato i concerti vivaldiani. Johann Joachim Quantz li conobbe nel 1714 mentre soggiornava a Pirna […]. L’altro è Sebastian Bach, che non solo arrangiò per tastiera un certo numero di concerti vivaldiani, ma ne scrisse egli stesso nella medesima forma e condotta […]”. Fonte: Robert Eitner, Die Sonate. Vorstudien zur Entstehung der Form, in: “Monatshefte für Musik-Geschichte”, XX (1888), n. 11: a pp. 163-4.
Cose oggi note perfino ai coniugi Bianchini, ma che dette nel 1888 da un padre nobile della Musikwissenschaft fanno una certa impressione. Lo avranno mai letto i signori di Sondrio? Un’altra penna mancante dal loro sgangherato cimiero è il nome di Friedrich Chrysander, che nei loro due tomi compare una sola volta a mo’ di nudo cognome cui sono incapaci di associare un nome di battesimo nell’indice analitico (II/242, 476). Qui l’ectoplasma del “dottor Chrysander” viene evocato di risulta da un passo (1910) di Henry Edmond [recte: Edward, ndr] Krehbiel , ridicolmente da loro stravolto per “dimostrare” che nel Don Giovanni Da Ponte e Mozart abbiano “plagiato” Il convitato di pietra di Bertati-Gazzaniga. Le due opere sono entrambe pubblicate e registrate su disco; non serve molta scienza per valutare l’abisso di qualità drammatico-musicale che le separa. Invece il vero Chrysander, altro atleta del lavoro musicologico che per primo pubblicò criticamente gli opera omnia di Händel e di Corelli, così scriveva nel 1867:
“Für Händel wie für Mozart war es von unberechenbarem Werthe, daß sie so völlig in die italienische Tonkunst eingingen; Gluck selbst würde nie seinen gelehrteren französischen Vormann Rameau überholt haben, wenn er seinen Gang nicht durch Italien genommen hätte”. (Friedrich Chrysander, G.F. Händel, Leipzig, Breitkopf & Härtel, vol. III, cap. 1).
Si traduce a beneficio di coloro che, come B&T, non comprendono il tedesco. Il che non è ovviamente una vergogna, a meno che non si cerchi di negarlo contro l’evidenza:
Per Händel come per Mozart fu di valore incalcolabile l’essersi addentrati tanto completamente nell’arte italiana dei suoni; lo stesso Gluck non avrebbe mai superato il suo dotto predecessore francese Rameau se non avesse intrapreso il suo percorso attraverso l’Italia.
Così fra menzogne, calunnie e colpevoli omissioni la barca dei negazionisti procede a vele spiegate verso il naufragio nel ridicolo:
È il momento di scrollarsi di dosso un fardello nazionalsocialista che infesta da più di sessant’anni i libri di musica. Già i film nazisti consideravano “Classici viennesi” un gruppo selezionato d’individui di razza ariana, che la musicologia tedesca del primo Novecento, e di riflesso la stampa di quei tempi, identificò con Haydn, Mozart e Beethoven (HMB), la cosiddetta “Santa Trinità” (B&T, I/27).
Tale demagogico pistolotto ci sembra indice di somma confusione mentale. I film nazisti e “la stampa di quei tempi” (cioè del primo Novecento, ma quale stampa? Forse gli album per l’infanzia…) cosa avranno mai a che fare coi ponderosi tomi della Musikwissenschaft universitaria che i coniugi Bianchini si sono sdegnosamente guardati dal compulsare nei loro anni di apprendistato? Come al solito questi laureati con lode sparano a pallettoni nel buio sperando di acchiappare qualcosa. Se per ignoranza, malafede o disprezzo dei loro malcapitati seguaci, o magari per una maleodorante miscela di tutti questi fattori, lo lascio indovinare a te, mio dotto Feraspe, e al paziente lettore che ci ha seguito fin qui.
Bufalografia
B&T I: Mozart – La Caduta degli dei. Parte prima, Tricase, Youcanprint Self-Publishing [ma: Printed in Germany by Amazon Distribution GmbH, Leipzig], 2016.
B&T II : Mozart – La Caduta degli dei. Parte seconda, ivi, idem, 2017.
(Salvo diversa indicazione, le traduzioni dal tedesco sono del prof. Aristarco Scannabufale).
13 Agosto 2019 il 13:38
Ottima presa per il modem. Fra parentesi: quello raffigurato in testa al titolo non è proprio l’elmo di Scipio, ma il Pickelhaube, l’elmo chiodato dell’esercito tedesco all’epoca del Kaiser Gugliemone. Sbaglierò, ma mi sembra un suggerimento ai “musicologi alternativi”: lo usino come cuscino…
15 Agosto 2019 il 11:02
Grazie per la risposta.