“È difficile essere orgogliosi della propria intelligenza quando la si esercita davvero”

(Simone Weil)

È appena uscito un nuovo instant book autoprodotto dai musicologi di scuola sondriese Luca Bianchini e Anna Trombetta, corredato di prefazione del programmista di Radio Vaticana Luigi Picardi e di note codicologiche dettate in tempo reale al telefono (!) dal regista Agostino Taboga, l’erede anche spirituale del padre Giorgio. Nella presentazione firmata da Maria Teresa Secchi, presidente del Saser – Centro Studi Cultura Sarda di Sassari, si elargisce agli “studiosi Bianchini e Trombetta” l’epiteto onorifico di “appassionati competenti”, dalla prelodata presidente contrapposti ai “mozartiani ferventi”. Ignoriamo di che credenziali scientifiche sia fornita la signora Secchi per distribuire simili patenti di nobiltà. In attesa di trovare il tempo e lo stomaco forte per occuparci delle freddure negazioniste sviluppate in questo estemporaneo libello di 145 pagine, sbobinatura accresciuta di una conferenza tenuta appunto a Sassari il 18 maggio 2019, ci concederemo a mo’ di aperitivo l’analisi – dopo la prima contestazione nell’Ahimè, n. 199 di Michele Girardi (LINK) – di una di esse; in apparenza marginale, ma che rivela quanto rozzo, preconcetto e povero di strumentazione tecnica sia l’approccio dei cosiddetti “appassionati competenti” (d’ora in poi B&T) ai problemi della musicologia storica, e in particolare del gusto estetico e della ricezione.

Nella loro sconfinata libidine di “decostruire” il mito artificiale del classicismo viennese, ora i due si azzuffano con la B della famigerata triade HMB, contrapponendo all’oriundo renano Beethoven, presunto allievo di Andrea Luchesi, questa volta non già un italiano, bensì un viennese purosangue: Anton Franz Joseph Eberl (1765-1807). Cominciano, ci mancherebbe, col creargli una genealogia artistica non “ariana”, cioè secondo loro non austro-tedesca:

La sua storia è curiosa. Era stato allievo forse di Georg Christoph Wagenseil e del boemo Josef Antonín Štĕpán per la composizione. Il musicista ceco Jan Antonín Koželuh gli aveva insegnato a suonare il pianoforte (B&T 2019, p. 30).

Già, “allievo forse”. Ci spieghino prima, se la sanno, la differenza tra un boemo e un ceco, e poi ci rivelino in quali dizionari siano andati a mendicare quel “forse” di cui non rivelano la fonte. Noi ne conosciamo due, ma tiriamo avanti. Certo che, ipotesi per ipotesi, la loro vale altrettanto di quella avanzata non meno dubitativamente dall’ultimo Grove’s (voce “Eberl” a cura di Alton Duane White): “Potrebbe essere stato un allievo di Mozart, il quale gli fu amico e lo incoraggiò”. Poteva quell’ignorante autodidatta e plagiario di un Mozart insegnare alcunché? Non sia mai! B&T ci rivelano la loro contro-verità:

Eberl compone musica quando è giovane, è un pianista, un virtuoso. Poi incontra Mozart. Sembra che il rapporto con il Salisburghese sia stato deleterio per lui, perché la sua produzione improvvisamente finisce. Non crea più niente. Dopo che Mozart muore riprende a comporre pezzi molto belli (ivi, p. 31).

Ecco gettate le basi per l’immancabile teoria del complotto. Eberl avrà fatto da ennesimo “negro” all’incapace Wolfgang. Peggio ancora:

[Eberl] Scrisse molta musica, oggi quasi tutta inspiegabilmente perduta (ivi, p. 30).

Si noti quell’ineffabile “inspiegabilmente”. La citata voce del Grove’s narra tutta un’altra storia sui rapporti dei due musicisti, sulla cronologia e l’effettiva consistenza del lascito eberliano, nonché sulle attribuzioni apocrife a Mozart di alcuni lavori pianistici più tardi rivendicati da Eberl come propri. Ma, una volta avviate le pale della macchina del fango, ai due “competenti” resta difficile trattenere la virtuosa indignazione:

La sonata giovanile di Eberl per pianoforte in do minore (op. 1) fu ritenuta a torto, e per un certo tempo, l’ultima delle sonate di Mozart (K.Anh.C25.01). È scandaloso che ancor oggi ci sia qualcuno [chi? ndr] che la accrediti al Salisburghese. I critici musicali [quali? ndr] l’hanno definita l’ultima e migliore sonata di Amadé (ivi, loc. cit.).

“Ancor oggi” un paio di Mozartkugeln, miei signori! A decostruire quelle attribuzioni apocrife si erano prodigati fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo sprovveduti “mozartiani ferventi” quali Alfred Einstein e H.C. Robbins Landon. Ultimo arrivato il citato Alton Duane White, che all’opera pianistica di Eberl dedicò poco meno di mezzo secolo fa la propria tesi di laurea (WHITE 1971). Senza contare che proprio la calunniatissima Constanze Mozart a detta dei signori B&T la prima artefice delle appropriazioni postume per motivi di vile denaro si adoprò senza successo già nel 1799 per dissuadere gli editori Breitkopf & Härtel dall’inserire un brano di Dittersdorf e uno di Eberl fra le Oeuvres complettes [sic] del marito (lettera del 13 novembre; n.° 1266 dell’epistolario Bauer-Deutsch).

Ma di ciò basti. Avevamo promesso di occuparci di bufale beethoveniane, ed eccoci giunti al punto con le artefatte conclusioni che i nostri (si fa per dire) eroi della nuova musicologia traggono da una controversia attributiva indubbiamente antica e complessa:

Perché evidentemente il nostro giudizio in fatto di gusti musicali non è libero ma soggetto al marchio. Se un’opera non è di Mozart perde ogni valore (ivi, loc. cit.).

Condivisibile entro certi limiti la prima affermazione, falsa la seconda: se i nostri amici vedono rosso ogni volta che appare il nome del Salisburghese non è detto che tale polarizzazione valga all’inverso per tutti gli ascoltatori. E, volendo ragionare sui numeri, potremmo discutere sulla reale incidenza di una distorsione percettiva: capita magari che un pubblico poco competente possa sopravvalutare musiche di Mozart, benché di minore importanza o malamente eseguite, ma il disprezzare un brano perchè “non di marca” sarebbe un atteggiamento da parvenus che non si riscontra facilmente nella vita concertistica reale.

Al tempo quella era musica di Eberl e aveva un valore assoluto. Eberl era un compositore molto dotato. Quando Beethoven fece eseguire l’Eroica a Vienna, insieme a quella fu presentata la sinfonia di Eberl in mib maggiore, op.33, e la critica e il pubblico decretarono che la composizione di Eberl era di gran lunga superiore a quella di Beethoven. La sinfonia che si trova facilmente su YouTube, e che abbiamo proposto anche a Radio Vaticana durante una puntata dedicata a questi argomenti, è effettivamente straordinaria. Ascoltatela. Il pubblico di allora non espresse i giudizi alla leggera. Con ciò non si vuol dire che non valga la pena di ascoltare l’Eroica di Beethoven. È bellissima [bontà loro, ndr]. Sono due capolavori (ivi, loc. cit.).

YouTube come metro di giudizio estetico è un favorito somaro di battaglia dei coniugi Bianchini. Apriamo qui una piccola digressione. In B&T 2017 (p. 343 e n. 1168) così essi tentavano di motivare l’ennesima accusa di plagio a carico di Mozart:

Nel Flauto magico si scovano plagi di musica non solo coeva, ma anche più datata. L’Aria della Regina della Notte somiglia all’Aria di Salieri ”Wenn dem Adler das Gefieder” dello Rauchfangkehrer […] (Lo spazzacamino) […]. Il commento di quest’ascoltatrice su YouTube è particolarmente significativo: “Nessun altro ci sente delle tracce dell’Aria della Regina della Notte? Io adoro Mozart, ma forse in questa Aria c’è un poco di furto artistico”.

“Particolarmente significativo” solo per la superficialità della gentile commentatrice anglofona: tale Patricia Childs, la quale si è fermata al dato esteriore della coloratura e del “canto di sbalzo”, comune a centinaia di opere serie e buffe del secolo XVIII. È una trombiniana cooptata suo malgrado, a dispetto della sua ammissione di “adorare” Mozart. Chissà di cosa si occupa nella vita? Da musicologi laureati con lode come si vantano di essere i signori B&T ci saremmo piuttosto attesi una valutazione comparativa dei due brani nel quadro del contesto drammaturgico, ossia come sinergia di parola, musica e “affetto”. Quella di Salieri è infatti un’aria buffa in Do maggiore, 4/4, Allegro, costruita su due regolari quartine di ottonari con da capo; lo schema metrico è ABAB/ CDCD. Al contrario Mozart scrive un’aria di sdegno fortemente drammatica (“Der Hölle Rache”) in Re minore, 4/4, Allegro assai, su uno schema metrico irregolare senza da capo: una quartina in pentametro giambico seguita da un’altra in trimetro giambico e conclusa con una rima in pentametro; schema metrico ABAB/ CCCD/ ED. In Salieri la voce attacca dopo un’anticipazione tematica di 16 battute: una fanfara militare di burlesca solennità. Mentre Mozart, in armonia con la satanica irruenza del personaggio, prescrive un attacco in anacrusi già alla metà della seconda battuta. In Salieri la protagonista non è una demoniessa; solo un giovane vedova un po’ civetta che si pavoneggia fantasticando una lucrosa carriera da virtuosa di canto. Altre differenze di peso si riscontrano nell’orchestrazione e nella sequenza delle modulazioni armoniche, ma a che serve infierire? Delegando la prova del “plagio” ad una simile fonte, i coniugi Bianchini si scoprono impudicamente quali sono: musicologi del Tubo. La definizione li offende? Allora la ritiriamo. Li chiameremo Tribuni della Plebe (mediatica).

Identica la demagogia del loro approccio alla comparazione fra Eberl e Beethoven. Pubblico e critica “di allora” furono giudici imparziali e inappellabili, mentre quelli odierni sarebbero imbambolati dal “marchio”, naturalmente imposto da un Sistema cinico e baro prono alle politiche di potenza cultural-commerciale dettate dagli Asburgo, dal dottor Goebbels e dalla musicologia ufficiale a loro asservita. Ebbene i bari sono proprio B&T, che delle fonti documentarie fanno strame ad uso di teoremi prefabbricati a tavolino. Sopprimendole, selezionandole furbescamente e, quando occorre, inventandole di sana pianta.

Sulle prime esecuzioni viennesi dell’Eroica nel 1805 possediamo solo due recensioni dello stesso critico anonimo, entrambe pubblicate nella “Allgemeine Musikalische Zeitung” di Lipsia. In più una testimonianza epistolare di Griesinger, il futuro biografo di Haydn, diretta a Gottfried Christoph Härtel, l’editore della medesima rivista. I coniugi Bianchini non dovrebbero avere grande stima di queste fonti dato che così ne sminuiscono, invero assai leggermente, l’attendibilità:

L’Allgemeine musikalische Zeitung, rivista di Breitkopf & Härtel, cominciò a uscire dal 1798, sotto la direzione di Friedrich Rochlitz, “per agevolare lo smercio delle Opere Complete di Wolfgang Amadeus Mozart e soprattutto del Requiem, il massimo affare dell’editoria musicale di quei tempi” (B&T 2019, p. 31).

La fonte del virgolettato è omessa, dunque B&T sono incorsi in un plagio; ma lo stile da liquidatore a buon mercato è inconfondibile: si tratta del loro precursore BUSCAROLI 1996 (p. 14). E infatti B&T non sembrano aver letto le testimonianze originali, né le citano nella loro “Bibliografia essenziale”. Dopo averne fornita l’apodittica sintesi “la critica e il pubblico decretarono che la composizione di Eberl era di gran lunga superiore a quella di Beethoven” (v. supra), passano con una capriola alla prova del Tubo. Rimediamo noi traducendo in lingua italiana le fonti occultate (cfr. Appendice di documenti, infra).

Il quadro che ne emerge è assai diverso, presentando il familiare panorama di un pubblico diviso in due partiti avversi: i tradizionalisti e i novatori. Del pari ambivalente è il giudizio dell’unico critico di professione, che al nuovo lavoro di Beethoven riconosce “idee grandiose e audaci” nonché “una grande forza espressiva”, mentre gli rimprovera l’eccessiva lunghezza, la difficoltà esecutiva e la scarsa coerenza formale rispetto ai parametri classicisti della sinfonia. Secondo lui non sarebbe neppure una vera sinfonia ma “una fantasia assai estesa, audace e selvaggia” (eine sehr weit ausgeführte, kühne und wilde Phantasie). Significativo il confronto sfavorevole con le due precedenti sinfonie dello stesso Beethoven: la Prima op. 21 e la Seconda op. 36. Di Mozart sono parimenti citate a mo’ di canone da venerarsi senza riserve la K 550 (n. 40, “Schwanengesang”) e K 551 (n. 41, “Jupiter”), mentre per Eberl potrebbe trattarsi, sebbene con minor grado di certezza, dell’op. 33 in Mi bemolle maggiore e dell’op. 34 in Re minore. Si noti che in quest’ultima la sezione fugata del finale deriva appunto dalla “Jupiter”.

Spingendo oltre i limiti del grottesco la loro ipercritica negazionista nutrita di cavilli grafologici e papirologici di dubbia consistenza, i coniugi di Sondrio e il loro braccio secolare Agostino Taboga vorrebbero negare in toto l’autenticità del catalogo autografo di Mozart e quindi l’attribuzione a lui della “Jupiter”. Per ora si limitano a definirla “anonima” (B&T 2019, pp. 56-58), e domani chissà? Verrano magari a raccontarci che anche quella è di Eberl, come già insinuavano obliquamente in B&T 2017, pp. 390-91. Sembrano profilarsi i fondamenti di un nuovo “caso Luchesi”, ma a questo punto vorremmo domandare: perché mai la turpe cospirazione razzista di cui la “Allgemeine musikalische Zeitung” e l’editore Breitkopf erano, a dire dei Signori Revisionisti, l’ala marciante avrebbe rinunciato ad intestarsi un nuovo genio di pura stirpe ariana accanto al defunto Mozart? Un viennese di nascita quale Eberl non poteva entrare, a maggior gloria degli Asburgo, nel pantheon fasullo della Wiener Klassik come e meglio degl’immigrati Haydn, Mozart e Beethoven? Perché dei due “capolavori assoluti” presentati in contemporanea nel 1805 al pubblico del Theater an der Wien l’uno (Eberl) è andato sommerso nell’oblio mentre l’altro (Beethoven) è entrato nel canone delle opere immortali? Effetto del “marchio”, affermano B&T.

Una spiegazione meno metafisica si potrebbe cercare nella dettagliata analisi formale delle sinfonie di Eberl compiuta quasi un secolo fa da EWENS 1927, o ancora nell’equilibrato bilancio manualistico che del “caso Eberl” ci offre MIES 1982 (p. 176): “Le due ultime sinfonie di Eberl sono senza dubbio lavori significativi che al loro tempo attirarono attenzione e lodi; ma contro la loro sopravvivenza militava l’incompatibilità tra i forti elementi tradizionali, che sfidavano il confronto con Mozart e Haydn, e quelli nuovi, precursori del Romanticismo”.

Il problema è che Eberl è completamente dimenticato, mentre tutti si ricordano di Beethoven. Come mai? C’è qualche problema nella trasmissione dei fatti (ivi, loc. cit.).

I fatti sono testardi. I cartelloni del Gewandhaus di Lipsia registrano per la sinfonia op. 33 di Eberl non meno di 16 esecuzioni dal 1807 al 1828; di alcune altre, l’ultima delle quali ebbe luogo il 7 febbraio 1833, l’identificazione è incerta fra l’op. 33 e la 34. Dopo di allora essa scompare totalmente dal repertorio della massima istituzione concertistica di Germania. Se ne facciano una ragione i signori B&T: i gusti del pubblico mutano e con loro il canone dei capolavori “assoluti” (cfr. WEBER 2008). Nella controversa prima ricezione dell’Eroica s’intrecciano resistenze puramente estetiche legate alle abitudini pregresse di ascolto ed altre derivanti dal clima ideologico-politico dell’epoca.

Per dirla con Jordi Savall (comunicazione personale): “La Terza sinfonia di Beethoven, la cui prima edizione s’intitolava Sinfonia eroica, composta per festeggiare il sovvenire d’un grand’Uomo, è molto più di un tributo al culto della personalità: essa è anzitutto l’esplosione di un dramma interiore e la sublimazione di ideali mitologici e rivoluzionari (Prometeo e Bonaparte). La sua imponente struttura, il suo stile potentemente drammatico, il suo sviluppo di prodigiosa inventività la rendono a doppio titolo rivoluzionaria. Rivoluzionaria (nel senso di qualcosa che introduce un profondo cambiamento di costumi e opinioni) è una parola-chiave che ci ricorda non solo il suo contesto storico, ma anche gl’interrogativi che rivolge al nostro presente. Ma cosa resta del carattere rivoluzionario di questa musica, così spesso trasformato e deformato per ragioni estetiche e commerciali al punto di divenire un pezzo impersonale di easy listening?”

In altri termini: ciò che nel 1805 sembrava oltraggio avanguardistico alle buone regole della composizione può divenire già due-tre decenni più tardi il paradigma di una nuova classicità, e dopo due secoli soltanto un puro oggetto di consumo. Donde la legittimazione, parziale e non da tutti condivisa, di quelle interpretazioni “autenticiste” che mirano a ricostruire organici, timbri, agogiche e fraseggi ripulendoli dalle incrostazioni della cosiddetta tradizione. Non è così per tutti, il che spiega gl’iperbolici quanto facili entusiasmi per certe riscoperte. Fra i cosiddetti “autori classici” esistono infatti due categorie: quelli la cui fama non è mai tramontata e quelli che sono stati oggetto di una renaissance. Il che può essere avvenuto per un milione di motivi, ma soprattutto per la capacità di un singolo brano di farsi ricordare e quindi di entrare stabilmente in repertorio. Non sono pochi gli autori che si sono salvati grazie a uno o due brani (ad esempio la fama di Reinecke è stata legata per decenni alla sonata “Undine”, al concerto per flauto e al concerto per arpa). Invece il terzo concerto per pianoforte di Reinecke, celeberrimo all’epoca, fu presto scalzato da quelli di Brahms, e fino agli anni Novanta del XX secolo non è stato più preso in considerazione.

Quanti altri compositori, ci domandiamo, sfuggono alle sensazionalistiche rivalutazioni dei coniugi Bianchini e del loro fan club annidato su Facebook perchè noti solo a chi studia su libri, archivi e partiture; non già sui canali di YouTube, che devono per forza riferirsi ad opere che qualcuno ha eseguite, registrate e pubblicate in precedenza? Davvero non ci si capacita di come si potesse studiare musicologia prima di YouTube (fondato nel 2005). Ma torniamo a Eberl. Il quale, come tantissimi altri colleghi del primo Ottocento, esce dal repertorio dopo circa trent’anni dalla morte, non meno prematura di quella di Mozart. Esce dalle storie della musica come tutte le cose che non hanno un fondato motivo per rimanervi. Non c’è in questo nulla di singolare o che meriti di essere spiegato con oscuri complotti. Se la “macchina Eberl” si ferma, nonostante la sua produzione sia pubblicata a stampa e resti disponibile nelle biblioteche e nei negozi di musica, è perché lo si considera un superato sicché, a torto o a ragione, nessuno ha più voglia di eseguirlo in concerto. E infatti la macchina è ripartita all’inizio del nostro millennio grazie ad alcune produzioni discografiche: su tutte, le sinfonie incise nel 2000 da Concerto Köln in seno ad un progetto che ospitava vari proto-sinfonisti come Kraus e Rosetti, e poi il lavoro metodico che sta conducendo l’etichetta tedesca CPO. Nell’epoca del vinile il numero di registrazioni della musica di Eberl, salvo errore, era stato prossimo allo zero.

Tali sono i sentieri obliqui e spesso interrotti della ricezione. I coniugi Bianchini vorrebbero farci credere che nella Vienna a cavallo di due secoli ci fossero Mozart, Haydn e qualche altro compositore che faceva il “negro” o veniva oscurato per mancanza di alti protettori. Forse non realizzano che la capitale di un impero multinazionale ospitava centinaia di buoni professionisti della musica, assai probabilmente non in diretto contatto coi suddetti. Prima e dopo la morte delle Grandi Firme costoro hanno continuato a sgomitare per poter lavorare, e di certo non stavano lì a capo chino mentre gli editori (o chi per essi) li depredavano delle loro opere migliori perpetrando una sorta di pogrom pro-mozartiano e pro-haydniano. Ma è davvero possibile tanta innocenza, per non dire di peggio? Sì, se per costruire una storia della ricezione s’ignorano le fonti della critica coeva, si tacciano di menzogna documenti e testimonianze malamente orecchiati perché redatti da barbari in lingua barbara e si vive in perenne contemplazione di YouTube come un bramino fa col proprio ombelico.

Appendice di documenti

1) Lettera di Georg August Griesinger all’editore Gottfried Christoph Härtel, 13 febbraio 1805. Passo cit. in BRINKMANN 2000, p. 204 (testo completo nell’archivio digitale del Beethoven-Haus di Bonn).

“Di questo posso assicurarla: che la sinfonia è stata udita con applauso non comune in due accademie [concerti privati, ndr] presso il principe Lobkowitz e un attivo dilettante di nome Wirth [sic]. Da estimatori e oppositori la sento proclamare un lavoro geniale; quelli dicono: qui c’è di più che Haydn e Mozart, la poesia sinfonica (Simphonie-Dichtung) è stata condotta ad un livello più alto! Questi al contrario lamentano la mancanza di simmetria complessiva (Rundung des Ganzen), biasimano l’accumularsi di pensieri colossali. In simili casi hanno tutti ragione”.

2) Esecuzione semipubblica a casa del banchiere Joseph Würth, 20 gennaio 1805. Recensione anonima in AmZ n.° 105, col. 321.

“Presso il signor von Würth fu eseguita la sinfonia in Do maggiore di Beethoven [n. 1 op. 21, ndr] con precisione e leggerezza. Una magnifica creazione artistica. Tutti gli strumenti sono impiegati in modo eccellente, una non comune ricchezza di belle idee vi si dispiega con splendore e grazia, eppure regnano ovunque coerenza, ordine e luce. Una nuova sinfonia di Beethoven […] è scritta in uno stile tutt’affatto diverso. Questa composizione lunga, estremamente difficile da eseguire, è propriamente una fantasia assai estesa, audace e selvaggia. Nulla le manca quanto a passi impressionanti e belli in cui si deve riconoscere lo spirito energico e pieno di talento del suo creatore; tuttavia assai sovente essa sembra perdersi del tutto nella sregolatezza. […] Certo il presente recensore appartiene ai più risoluti estimatori del signor van Beethoven; eppure deve confessare di trovare in questo lavoro troppe sfacciataggini e bizzarrie, da cui la visione d’insieme è resa estremamente difficoltosa e l’unità va perduta quasi del tutto. […] La sinfonia in Mi bemolle di Eberl piacque di nuovo straordinariamente, e invero ha in sé tanto di bellezza e potenza, è condotta con tanto genio e arte, che difficilmente mancherà di fare effetto dovunque la si concerti con cura. Davvero eccellente è l’ultimo movimento, dominato da cima a fondo da un’idea semplice ma incantevole, impiegata e sviluppata in maniera assai bella e artificiosa.”

3) Prima esecuzione pubblica in una beneficiata per il violinista Franz Clement, Theater an der Wien, 7 aprile 1805. Recensione anonima in AmZ n.° 105, coll. 501-502.

“In questo concerto ho udito eseguire da una nutritissima orchestra la nuova sinfonia beethoveniana in Mi bemolle […] diretta dal medesimo compositore. Ma anche questa volta non ho trovato alcun motivo di mutare il mio giudizio già formulato in precedenza. In ogni caso questo nuovo lavoro beethoveniano contiene idee grandiose e audaci, nonché, come ci si può attendere dal genio di questo compositore, una grande forza espressiva; ma la Sinfonia guadagnerebbe infinitamente (essa dura un’ora intera) [il doppio di quella di Eberl, ndr] se Beethoven si risolvesse ad accorciarla e ad immettere nell’insieme più luce, chiarezza e unità. Proprietà che mai erano assenti dalle sinfonie mozartiane in Sol minore e in Do maggiore, da quelle beethoveniane in Do e in Re, e da quelle di Eberl in Mi bemolle e in Re, pur con tutta la loro ricchezza d’idee, tutto l’impiego degli strumenti, e tutta l’alternanza di sorprendenti modulazioni. Così per esempio qui [nell’Eroica, ndr] al posto dell’Andante vi è una marcia funebre in Do minore che in seguito si sviluppa a mo’ di fuga. Ma ogni movimento di fuga diletta solo mediante l’ordine percepito entro l’apparente confusione: se invece anche ad un ascolto ripetuto la coesione sfugge perfino all’attenzione più faticosa, ciò deve risultare strano ad ogni non prevenuto conoscitore di musica. Mancava dunque moltissimo affinché la sinfonia piacesse universalmente”.

Bibliografia

EWENS 1927: Franz Josef Ewens, Anton Eberl: ein Beitrag zur Musikgeschichte in Wien um 1800, Dresden, Wilhelm Limpert.

WHITE 1971: Alton Duane White, The Piano Works of Anton Eberl (1765-1807), Ph.D. University of Wisconsin.

MIES 1982: Paul Mies, Orchestral Music of Beethoven’s Contemporaries in The Age of Beethoven:1790-1830, a cura di Gerald Abraham e Jack Allan Westrup, vol. VIII della New Oxford History of Music, Oxford University Press.

BRINKMANN 2000: Reinhold Brinkmann, Die Zeit der Eroica, in: Musik in der Zeit – Zeit in der Musik, a cura di Richard Klein, Eckehard Kiem e Wolfram Ette, Göttingen, pp. 183-211.

WEBER 2008: William Weber, The Great Transformation of Musical Taste: Concert Programming from Haydn to Brahms, Cambridge University Press.

Bufalografia

BUSCAROLI 1996: Piero Buscaroli, La morte di Mozart, Milano, Rizzoli.

B&T 2017: Luca Bianchini-Anna Trombetta, Mozart. La caduta degli dei. Parte seconda, Tricase, Youcanprint.

B&T 2019: Luca Bianchini-Anna Trombetta, Mozart. La costruzione di un genio, Tricase, Youcanprint.