“Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. […] Questa tecnica popola di avventure i libri piú calmi“.
Il borgesiano Pierre Menard, paradossale riscrittore del Don Chisciotte nel XX secolo, ha precursori e seguaci in quantità, anche se di rado altrettanto platonici nei loro moventi. La contraffazione è un dato costante di ogni mercato: quello delle arti figurative è sempre stato il più lucroso per i falsari, ma anche la musica si difende bene.
In principio fu il Copista Raggiratore satireggiato nel Teatro alla Moda di Benedetto Marcello (1720): “Venderanno a’ Forastieri che desiderassero buone Arie d’Opera, carte vecchie col nome de’ Professori migliori”. Venezia, capitale del turismo musicale, era la Mecca di questi artigiani del falso; di uno sappiamo anche il nome: Iseppo Baldan, che nel decennio successivo alla morte di Vivaldi sbolognò alla cappella di corte di Dresda un Dixit Dominus del Prete rosso, già suo cliente, scrivendo sul frontespizio il nome di un altro maestro veneziano più giovane e più quotato: Baldassarre Galuppi. La gherminella fu scoperta solo nel 2005 grazie alle ricerche di due studiosi: l’australiana Janice Stockigt, esperta di Galuppi, e il britannico Michael Talbot, suprema autorità vivaldiana.
Nel frattempo i moventi erano cambiati, anzi capovolti: dalla ricerca spasmodica del moderno (aggettivo tratto da “moda”) al culto dell’antico; effetto dello storicismo e del crescente distacco del gran pubblico dalle sperimentazioni dell’avanguardia. Saltando a piè pari un paio di secoli eccoci al 1935, quando l’acclamato violinista viennese Fritz Kreisler confessò al “New York Times” che sì, quei sedici pezzi di autori classici da lui acquistati per 8000 dollari in un convento benedettino presso Avignone – e poi suonati in concerto, pubblicati, registrati su disco – erano tutta farina del suo sacco. Boccherini e Pugnani, i due Couperin, Tartini, Porpora e Padre Martini fra le vittime più illustri, ma le spese maggiori le fece ancora Vivaldi. Una volta partito il revival delle Quattro Stagioni, il pubblico non era mai sazio di ascoltare i pochi concerti vivaldiani pubblicati in edizione moderna. Kreisler lo accontentò presentando nel 1906 un concerto in Do maggiore che diceva di aver trascritto da un’antica fonte di sua proprietà. La sua tardiva rivelazione destò un putiferio: il critico inglese Ernest Newman lo accusò con toni pomposi di essere un disonesto; il francese Marc Pincherle disse di averlo capito da un pezzo; altri ancora ne presero lo spunto per scagliarsi contro il repertorio preromantico, affermando che chiunque poteva scrivere un concerto vivaldiano con la mano sinistra mentre si radeva la barba con la destra. In pochi cadrebbero oggi nel tranello: il concerto di Kreisler è pieno di formule cadenzali che ricordano semmai la musica del tardo Settecento.
Anche i fratelli Henri e Marius Casadesus, pionieri dell’esecuzione su strumenti originali, volevano arricchire il repertorio. Henri beneficò la viola solista, troppo trascurata dagli autori classici, scrivendo tre concerti attribuiti a Händel e a due rampolli Bach: Carl Philipp Emanuel e Johann Christian. A differenza di Kreisler non confessò mai, mentre nel 1977 Marius ammise il misfatto davanti a un giudice e poté così incassare i diritti d’autore per un presunto concerto infantile di Mozart: l’ex KV 32b per violino e orchestra detto “Adelaïde-Konzert”; oggi KV Anh.C14.05. Per 44 anni Marius Casadesus si era celato dietro lo schermo del manoscritto tenuto sotto chiave; il suo record di reticenza per ora non corre pericolo da parte di Guido Rimonda, che comunque esegue da oltre quattro lustri una Meditazione in preghiera (data presunta: 1792) di Giovanni Battista Viotti, sulla cui origine ha rilasciato versioni discordanti e riferimenti bibliografici assai imprecisi. L’ha incisa nel 2000 con Bongiovanni, nel 2007 come allegato ad “Amadeus” e nel 2012 per Decca nel quadro di un’integrale viottiana in 15 Cd il cui termine era previsto per il 2018 ma che a tutt’oggi è giunta appena al decimo volume. Su “Classic Voice” (n. 162, novembre 2012, p. 49) così ne parlava Gabriele Formenti: “Sembra quasi un pezzo composto oggi per una colonna sonora di grande successo”. Appunto, un po’ come l’Adagio di Albinoni “ricostruito” nel 1958 da Remo Giazotto sulla base di scomparsi frammenti manoscritti di cui esiste solo una fotocopia più che dubbia. Restiamo a disposizione del maestro Rimonda per argomentare meglio i nostri sospetti o porgergli eventuali scuse.
Si fanno regali solo ai ricchi, afferma un proverbio francese. Haydn è uno degli autori più fecondi e più plagiati, anche se non tutti hanno osato quanto Winfried Michel, un flautista tedesco. Nel 1993 le sei sonate per pianoforte Hob XVI:2a-e,g, da lui ricostruite a partire da poche battute iniziali conservate in un vecchio catalogo tematico, riuscirono ad ingannare per qualche settimana esperti haydniani del calibro di Robbins Landon e Paul Badura-Skoda. Il mondo musicale rise per qualche anno, poi dimenticò; ma le partiture storiche in samizdat dell’ironico Herr Michel, alias Simonetti, alias Tomesani, continuano a circolare come oggetti di culto. Per non dire del Quartetto “Serenade” Op. 3 n. 5, col suo malioso Andante canzonetta dalla lunga melodia discendente che fluisce placida su un morbido tappeto di accordi pizzicati. Hans Ferdinand Redlich (voce “Haydn”, Enciclopedia della musica UTET, 1966) la definiva: “la pagina cameristica più famosa [di Haydn] … uno dei momenti più raffinati e uno dei ritratti più efficaci della civiltà viennese di fine secolo”. Redlich, morto nel 1968, era stato professore in una mezza dozzina di università, fra cui Edimburgo e Cambridge. Ma nel 1966 Georg Feder, studiando le carte di un fraticello che non si era mai mosso dalla natìa Baviera, scoprì in Romanus Hofstetter (1742-1815) il vero padre di questo e di altri tredici figli spuri che da un secolo e mezzo viaggiavano sotto il nome di Haydn con i loro bravi numeri di catalogo Hoboken. Shock cognitivo per la critica, che da allora dice di trovare banale e manierato ciò che prima aveva lodato come capolavoro epocale, ma anche per il mercato: quanti dei nostri gentili lettori acquisterebbero un Cd dei quartetti di Hofstetter? Pochi, giusto come quegli antichi dilettanti filarmonici che per animare le loro serate preferivano puntare sulle grandi firme. Editori e copisti erano pronti ad accontentarli. Qualche volta persino in (relativa) buonafede, come nel caso di un Concerto in Re maggiore per flauto e archi di František Xaver Pokorný, che una stampa parigina del Settecento aveva dirottato su Boccherini. In bocca francese i due cognomi suonano pericolosamente simili.
Le pere di Mastro Geppetto
Il 23 agosto 2009 Susan Orlando, direttrice della Vivaldi Edition per Naïve, dichiarava al “New York Times” di non approvare “la falsa pubblicità sui ‘capolavori vivaldiani perduti’, specie ora, quando ce ne sono tanti di autentici che il pubblico può scoprire”. Il suo strale puntava ad un Ercole sul Termodonte pesantemente restaurato da Alan Curtis e Alessandro Ciccolini per il Festival di Spoleto, ciò che non le ha impedito di fare lo stesso tre anni dopo per promuovere la ricostruzione, a cura di Federico Maria Sardelli, del cosiddetto Orlando 1714, parimenti mutilo e sospetto di estese commistioni con arie di Giovanni Alberto Ristori; operazione meglio motivata della precedente, ma non priva di zone d’ombra. Divorate le tre pere di Geppetto, Pinocchio “spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce, anche i torsoli”. Così fa oggi l’industria discografica, smerciando come capolavori ritrovati certe fonti note da tempo agli specialisti e finora scartate come dubbie, quando non come falsi integrali. I potentati musicologici si schierano in campi avversi, la stampa generalista attizza i contrasti, il pubblico – esilarato e disorientato da queste risse fra eruditi – corre a comprare per farsi un’idea. Di seguito ricordiamo quattro casi fra i più recenti.
1999: Ave Maria di “Giulio Caccini”. Primo track dell’album Sacred Arias di Andrea Bocelli e successo virale: 5 milioni di copie vendute. Con quelle progressioni di settima, nona e tredicesima su un volgare basso albertino a stantuffo, con quelle cadenze che il Seicento non l’hanno visto manco in cartolina, pare Morricone quando sbuccia la cipolla: nulla in comune col recitar cantando. L’aveva composta verso il 1970 il liutista sovietico Vladimir Vavilov (1925-1973) che l’aveva pubblicata come opera anonima.
2001: Gloria di “Händel”, scoperto a Londra da Hans Joachim Marx e contestato da Anthony Hicks. Marx lo vuole composto a Roma verso il 1708 a beneficio di Margherita Durastanti, amica del Sassone. Ma a quel tempo la signora toccava di rado il la4 partendo dal si2, mentre il Gloria si muove comodamente da fa3 a sib4. Pagina più adatta a un soprano di agilità (magari castrato) che ad un quasi mezzosoprano.
2004: Andromeda liberata di “Vivaldi”, serenata (1726). Per lo scopritore Olivier Fourés sarebbe tutta di Vivaldi perché contiene una sua aria autografa. Il comitato editoriale dell’Istituto Vivaldi ha però concluso per un pasticcio in collaborazione con Albinoni, Porpora, Biffi e altri. Con comprensibile disappunto dello stesso Fourés e di Andrea Marcon, incaricato della riesumazione su Cd, la DGG si è adeguata.
2011: Germanico di “Händel”. Lanciato in grande spolvero da Sony DHM come primizia operistica di Händel in Italia (1705/6), è invece una serenata o festa teatrale viennese attribuibile a Giovanni Bononcini e databile 1702/4. Lo scrivente suonò il primo allarme nel n. 145 di “Classic Voice” (giugno 2011, p. 6); ulteriori dettagli ha poi fornito su “Philomusica online”, organo del Dipartimento di Scienze musicologiche dell’Università di Pavia, n. 11 (2012), pp. 67-72. (v. http://philomusica.unipv.it/)
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