Sul blog proprietario in cui l’erede Taboga soffia, fa scoppiare e torna a risoffiare in continuazione le sue musicologiche bolle di sapone, ci càpita di leggere in occasione del compleanno di Beethoven la seguente tirata contro i gazzettieri cinici e bari, che trovate qui in edizione integrale:
Gli articoli apparsi su Der Spiegel, Il venerdì, Acta Musicologica, e sicuramente, purtroppo, quelli che seguiranno, hanno il potere di richiudere quelle piccole crepe aperte in passato che dimostrano, lungi dal ricercare una migliore comprensione della vita di Beethoven, come siamo ancora oggi non meglio informati che a metà ottocento o agli inizi del novecento: nel 1858 The Atlantic Montly [SIC] scriveva:
«Alcune indicazioni merita l’orchestra Elettorale, quella scuola nella quale Beethoven ebbe i fondamenti del suo prodigioso sapere sugli effetti strumentali e orchestrali […] Il Kapellmeister nel 1792 era Andrea Luchesi, nativo di Motta nel territorio Veneziano, un fertile e compiuto compositore in molti stili. Il Konzertmeister era Joseph Reicha, un virtuoso di violoncello, un fine direttore e non meno valido compositore. I violini erano 16 e tra essi Franz Ries, Neefe, Anton Reicha – in seguito celebre direttore del conservatorio di Parigi – e Andreas Romberg; quattro viole, tra cui Ludwig van Beethoven; tre violoncellisti tra cui Bernard Romberg; tre contrabbassisti. Tre erano anche gli oboe, due i flauti – uno suonato da Anton Reicha – due clarinetti, due corni – uno suonato da Simrock, famoso cornista e fondatore dell’omonima casa editrice ancora esistente in Bonn – tre fagotti, quattro trombe e i consueti timpani. Quattordici dei quarantatre musicisti erano virtuosi nei loro strumenti e mezza dozzina di essi era apprezzata come compositore. Quattro anni, nell’ipotesi più riduttiva, di servizio in un’orchestra del genere possono ben essere considerati la miglior scuola di tutte quelle che Beethoven possa aver frequentato».
La fonte è citata malamente (Atlantic Monthly, e non Montly), la traduzione è insieme approssimativa e pretenziosa (qui si fornisce per riscontro l’elegante originale inglese), e i dati emerografici sono citati alla bella marinara, come d’uso negli scritti di questo savant du dimanche.
Visto il clima natalizio, gli facciamo dono di quello che gli manca e lo esentiamo dai ringraziamenti: Beethoven: His Childhood And Youth (From Original Sources), articolo non firmato in “The Atlantic Monthly”, a.I, n.7 (maggio 1858), pp. 847-861: p. 856.
Nella versione italiana, le cui principali criticità abbiamo segnalato in grassetto, emerge poi un autentico strafalcione: “Tre erano anche gli oboe, due i flauti”. Ma come? Cominciando dall’epoca classica la normale formazione orchestrale prevede i legni (e i corni) a coppie. Controlli Lei stesso, dottor Taboga, sul Calendario di corte per il 1792 del Principato di Colonia-Bonn, che dei rispettivi suonatori ci tramanda anche i nomi a p. 16: “Hautbois George Libisch/ Joseph Welsch; Flûtes Sebastien Pfau. Antoine Reicha.”. Se poi riguardiamo il testo inglese troviamo appunto “There were two oboes, two flutes”; e dunque da dove spunta questo inopinato terzo oboe? Probabilmente dalla fantasia di un traduttore che non sa molto di orchestrazione.
Quisquilie erudite a parte, siamo al solito argumentum e silentio. L’Anonimo americano parla di almeno quattro anni di servizio in un’ottima orchestra; e chi lo nega? Luchesi ne era il Kapellmeister, Joseph Reicha la dirigeva, e i virtuosi-compositori al suo interno erano una piccola legione, d’accordo. Il giovane Ludwig, si presume, avrà ascoltato e imparato un po’ da tutti loro, mica solo da Luchesi. Lei dice di no? Ce lo dimostri.
Quelli che Lei, eccellentissimo Taboga jr., omette invece di menzionare anche di striscio, sono i passi ben più estesi e circostanziati che l’onesto gazzettiere ottocentesco dedica all’insegnamento diretto ricevuto da Neefe, nonché le calde espressioni di gratitudine che Ludwig gli rivolse in un celebre frammento di lettera databile al 1793.
Ma l’autografo beethoveniano è disperso; dunque sarà tutta un’invenzione del dottor Goebbels, nevvero dottor Taboga?Conosciamo fin troppo bene la Quellenkritik di famiglia, ma questa volta non c’è trippa per gatti visto che la fonte è un altro gazzettiere, bibliotecario e diplomatico statunitense: Alexander Wheelock Thayer (1817 – 1897).
Parentesi poliziesca per Lei che si diletta di sciogliere enigmi: la prima edizione della fondamentale biografia beethoveniana di Thayer apparve in tedesco fra il 1866 e il 1879; sono tre volumi che abbracciano gli anni fino al 1816. La vicinanza delle date, l’eleganza dello stile, e soprattutto la descrizione di prima mano dei luoghi che Thayer aveva visitato nel corso delle sue ricerche in Europa, mi inducono a ipotizzare che l’anonimo articolista sia proprio lo stesso Thayer.
Invece per Luchesi niente ringraziamenti da parte del presunto discepolo; e mai nessun accenno a quello stretto rapporto di cui così favoleggiava a più riprese Taboga senior: “Beethoven è potuto divenire un genio della musica grazie al lungo ed accurato insegnamento che ebbe a Bonn dal kapellmeister Andrea Luchesi” (G. Taboga 2000, non cito in dettaglio la fonte perché tanto con Lei non serve).
Perché mai un tale titanico silenzio, o ingrato Titano? Ce l’avevi con quel puzzone italiano per aver soffiato a Papà Johann la successione di Nonno Ludwig senior? Suvvia, lasciamo stare questi romanzetti da portinaie romantiche. Bella è la pietas erga parentes, ma non a spese della verità; e fra tanti testimoni oculari non temeva il Titano di sentirsi rinfacciare la sua ingratitudine? Qui mi tocca ricordarLe l’aneddoto riferito dal solito Thayer sulla fede del violoncellista dimissionario Bernhard Mäurer. Gennaio 1781: il decenne Ludwig compone una cantata funebre e prega Luchesi di correggerla. Al che un cotanto Kapellmeister gliela restituisce dicendo di non capirci nulla, ma che comunque l’avrebbe fatta mettere in prova. Lodevole tratto di tolleranza, ma non certo indice di un suo fervido impegno nella didattica.
Allora ci dica, dottore mio: è credibile o no l’aneddoto Mäurer? Perché a parte quello Lei non ha altro da rimestare nel suo pastone suprematista e xenofobo. Le resta solo l’ereditario argumentum ad svastikam: “La luce viene dalla Motta di Livenza; Luchesi non poteva non avergli insegnato tutto, visto che da Neefe, Reicha e tedescume assortito non c’era proprio nulla da imparare”. E chi non salta, nazista è!
P.S.: Se proprio ci tiene a sdebitarsi, da mio riconoscente allievo qual si dichiara in altro luogo del prelodato sito, mi spedisca una copia-omaggio degli opera omnia di Andrea Luchesi, volume primo, che si annuncia in uscita per Sua cura e spese; non senza corredarlo di una Sua preziosa dedica autografa. Lo so: lei apprezza i miei insegnamenti ma non il mio carattere. Pazienza; nessuno è perfetto, e il sottoscritto meno di tutti.
Con perfetta osservanza,
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